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Non bastano i moniti di Sergio Mattarella a salvare la giustizia dai suoi mali

Riccardo Mazzoni
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Nel suo intervento alla cerimonia del decennale della Scuola superiore della magistratura a Scandicci, il presidente Mattarella ha ribadito, con il suo usuale tono compassato, la necessità di una rigenerazione della magistratura, «chiamata a rivitalizzare le proprie radici deontologiche, valorizzando l'imparzialità e l'irreprensibilità delle condotte individuali; rifuggendo dalle chiusure dell'autoreferenzialità e del protagonismo». Un monito diventato ormai quasi un refrain che non sembra però aver scalfito né usi e costumi del Csm, né i vertici dell'Associazione magistrati, che continuano a negare l'evidenza e ripropongono sistematicamente un altro refrain: quello sull'operazione che sarebbe in atto per gettare discredito sull'intero ordine giudiziario. Come se la magistratura negli ultimi trent' anni fosse esente da colpe. Ieri Mattarella è tornato anche a chiedere una riforma del sistema elettorale del Csm in grado di sradicare accordi obliqui e «prassi elusive» per aggirare le finalità della legge.

 

 

Non fa ben sperare però la circostanza che quando esplose lo scandalo Palamara, Mattarella intervenne con altrettanta decisione chiedendo di fare pulizia e di cambiare le regole, ma salvo le dimissioni di qualche componente coinvolto, tutto poi è rimasto sospeso nel limbo in attesa che passi la nottata. La questione giustizia, insomma, è stata il terreno su cui il Settennato di Mattarella ha lasciato meno il segno. Non perché il presidente dovesse arrivare motuproprio allo scioglimento del Csm per arginare la stagione dei veleni tra magistratura e giustizia, un atto d'imperio che non è nelle sue corde, né ricalcare le orme di Cossiga, che prima fece circondare dai carabinieri Palazzo dei Marescialli per impedire un improprio pronunciamento politico contro Craxi, e poi ingaggiò un durissimo braccio di ferro con il Csm ritirando la convocazione del plenum, un episodio senza precedenti che fu archiviato solo con le dimissioni del vicepresidente Galloni. Ma il combinato disposto delle forzature costituzionali della legge Bonafede che abolì di fatto la prescrizione, del pentolone di veleni scoperchiato da Palamara e delle Procure che si arrogano il diritto di decidere cosa è un partito politico, avrebbe forse richiesto almeno un messaggio alle Camere, perché i mali della giustizia sono diventati a tutti gli effetti un vulnus istituzionale che investe i capisaldi della democrazia. Perché è innegabile che una parte della magistratura ha fatto ampio uso nel tempo di interventi orientati, mediaticamente pilotati e aventi esclusivamente finalità politiche attraverso fughe di notizie dalle procure, gogne mediatiche orchestrate e avvisi di garanzia trasformati in condanne preventive ma definitive nell'immaginario collettivo.

 

 

Una deriva di fronte a cui la riforma Cartabia ha interposto un argine solo parziale: ci vorrebbe ben altro, se perfino il conto corrente di un senatore finisce su un quotidiano a corollario di una valanga di atti senza rilevanza penale usciti dagli uffici giudiziari. Ma ciò che sgomenta di più, in questa inarrestabile corsa verso la Repubblica giudiziaria, è il riavvolgimento del nastro, ossia la rilettura degli interventi del precedente capo dello Stato, Napolitano, che inaugurò dieci anni fa la Scuola superiore che ha ospitato ieri Mattarella: i toni erano più taglienti, ma la sostanza era la stessa: «la magistratura deve adoperarsi per recuperare l'apprezzamento e il sostegno dei cittadini avviando una seria riflessione critica su sé stessa, non cedere a esposizioni mediatiche e non sentirsi investita di missioni improprie e esorbitanti, con atteggiamenti protagonistici e personalistici che possono offuscare e mettere in discussione l'imparzialità dell'ordine giudiziario». Da allora a oggi, insomma, nulla è cambiato. Anzi, la guerra politico-giudiziaria ha scritto altri capitoli non edificanti, sulla pelle della democrazia e della credibilità della giustizia, e più dei moniti presidenziali potranno forse i referendum, che restano l'ultima arma. Quella della disperazione.

 

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