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Le primarie non guariranno le malattie del centrodestra

Riccardo Mazzoni
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Le primarie come metodo di selezione della classe dirigente hanno segnato una stagione politica della sinistra all'insegna della partecipazione dal basso, ma sono state anche il simbolo della decadenza della forma partito novecentesca e, più in generale, di credibilità della politica. Non solo: a parte qualche rarissimo duello vero, come la vittoria a sorpresa di Matteo Renzi per il ruolo di candidato sindaco del Pd a Firenze nel 2009, il rito delle primarie ha progressivamente perso ogni appeal, fino a trasformarsi in un'autentica farsa, con la vittoria certa del prescelto di turno dal partito a fronte di una serie di improbabili candidati-fantoccio. Com'è avvenuto, ad esempio, nella recentissima corsa della sinistra romana al Campidoglio, dove nel facsimile della scheda elettorale il Pd ha deciso di lasciare solo il nome di Gualtieri, depennando tutti gli altri. Se poi si torna, salendo di grado, alle primarie indette per scegliere la leadership del partito o addirittura il candidato premier, l'esempio di Bersani è il più illuminante: di primarie ne vinse ben due - nel 2009 per la segreteria del partito, nel 2012 per la premiership del centrosinistra - senza mai però varcare il portone di Palazzo Chigi, e lo stesso Renzi, le cui fortune politiche sono iniziate proprio grazie alle primarie, alla guida del governo ci arrivò per tutt'altra strada: con una manovra di Palazzo.

 

 

Non a caso alle ultime regionali la scelta dei candidati governatori del centrosinistra è stata fatta senza il coinvolgimento popolare, mentre Arturo Parisi, ex ideologo dell'Ulivo ci ha messo una pietra tombale dicendo che, essendo finito quel tempo, le primarie sono ormai poco più di una commedia. Per questo fa molto riflettere che questo strumento così usurato ora venga rispolverato dal centrodestra come panacea di tutti i mali in caso di mancato accordo sui candidati sindaci per le prossime amministrative. Dopo l'esito non certo esaltante dell'ultima tornata elettorale, in cui la coalizione ha pagato a caro prezzo dispetti reciproci, tensioni e ritardi ingiustificabili, «affidare la scelta ai cittadini» per risolvere i casi più spinosi somiglia infatti molto a un facile slogan, al tentativo insomma di gettare la palla in tribuna che potrebbe essere interpretato come una perpetuazione dello stallo decisionale dei leader. Non propriamente un bel segnale, dunque, in vista del 2022, anno che si annuncia cruciale per definire gli assetti politici del dopo Draghi.

 

 

La storia delle primarie a sinistra, in questo senso, dovrebbe fungere da avvertimento, perché si sono quasi sempre trasformare in un inguardabile suk in cui le regole venivano definite per essere sistematicamente calpestate. Nel centrodestra ci aveva provato Alfano, quando Berlusconi gli affidò la gestione del partito salvo poi scoprire che non aveva il quid, arrivando a proporre le «primarie di programma» attraverso forme di consultazioni online e perfino la scelta popolare del candidato premier. Fu addirittura presentata una proposta di legge per istituzionalizzare le primarie dei candidati alle cariche monocratiche con elezione diretta, ossia sindaco, presidente di Provincia e governatore. Poi il cosiddetto tavolo delle regole saltò e non se ne fece di nulla. Visti dunque questi precedenti, davvero il centrodestra intende mettersi a copiare dal Pd questo modello sempre meno convincente, come dimostra il progressivo crollo di partecipazione?

 

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