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L'ira di Giorgia Meloni che boccia Silvio Berlusconi al Colle: "Tratta col Pd che non lo vuole"

Pietro De Leo
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Attenzione, caduta massi nel centrodestra. Per una coalizione che fatica a ritrovare il suo amalgama, anche a seguito del passaggio difficile del governo Draghi, ogni giorno ha la sua difficoltà. E ieri l'oggetto del contendere principale è stata l'ipotesi della candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale. Su cui si è pronunciata, con parole molto significative (e non in positivo), la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni. «Berlusconi è un mio alleato ed è una persona alla quale sono legata», ma la sua salita al Colle «non è una cosa facilissima, basta guardare i numeri», ha ragionato durante la presentazione dell'ultimo libro di Bruno Vespa. «Dopodichè, ho visto che Berlusconi ha risposto, credo per primo, all'appello del segretario del Pd Letta, per trattare insieme del prossimo Presidente della Repubblica. Dato che, a mio avviso, il Pd Berlusconi non lo vota, ritengo che questo significhi» che il numero uno azzurro «abbia deciso di fare un passo indietro e che non sia più interessato a questa partita. Almeno questa è stata la mia interpretazione». Che sia un siluro di risposta all'auspicio dell'ex Presidente del Consiglio di vedere Draghi a Palazzo Chigi anche dopo il 2023?

 

 

Di certo, al di là delle intenzioni contano gli effetti, che sono rovinosi su un gioco difficilissimo perché difficilissima è la partita dei numeri. Che parte da tre presupposti: il primo è la coesione massima del centrodestra. Il secondo è che la candidatura rimanga coperta, al massimo evocata, sino al momento opportuno, per non bruciarla. Il terzo è massimo riserbo sul percorso da compiere per captare altre voti oltre la coalizione. A dare un colpo all'ultimo punto ha pensato Gianfranco Micciché, l'altroieri, esplicitando la granitica possibilità di un appoggio di Matteo Renzi (ovviamente da quest'ultimo smentito). Le parole di Giorgia Meloni vanno invece a minare i primi due. Forza Italia, attraverso «fonti», prova a correre ai ripari assicurando che la disponibilità esternata sulla proposta lanciata da Enrico Letta sulla manovra è, appunto, limitata alla legge di bilancio e non riguarda altro. Riaffermando quanto sia «assolutamente prematuro discutere oggi di Quirinale, che i due piani non possono e non debbono assolutamente essere sovrapposti e che il centrodestra sarà unito». Però, al di là della nota da linguaggio abbottonato, è fisiologico quanto trapela tra le fila azzurre, ossia che Silvio Berlusconi non l'abbia presa benissimo.

 

 

Dopo la rovinosa tornata elettorale per le amministrative, infatti, i vertici di Villa Grande avevano quantomeno dato l'impressione di un ritrovato metodo di confronto, che poteva andare in direzione della ritrovata coesione. Poi, però, la difficoltà di ritrovare una sintesi sui punti in agenda si ripropone, dirompente. Il ruolo di Draghi, senz'altro. L'uscita sul Colle, certo. Ma anche il peggioramento della situazione pandemica, con i governatori della Lega, Roberto Occhiuto di Forza Italia e Giovanni Toti di Cambiamo! che hanno trovato una consonanza nell'auspicare limitazioni soltanto ai non vaccinati nei territori in cui il quadro dei dati dovesse richiederle. Posizione non condivisa dalla leader di Fratelli d'Italia. E una differenza di vedute si materializza anche sullo schema di gruppo unico sovranista in Ue, lanciata da Marine Le Pen, accolta da Matteo Salvini e non da Giorgia Meloni Insomma, tra asperità dovute all'eccezionalità del momento (il Covid) ed altre fisiologiche (il Colle o l'Unione Europa), il cammino verso una proposta unitaria del centrodestra in tutti gli aspetti politici, dal programma agli assetti, appare sempre in salita.

 

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