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Reddito di criminalità. Il RdC è servito solo a far guadagnare malviventi, disonesti e furbetti

Benedetta Frucci
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Una dopo l’altra, le storie di «furbetti» del reddito di cittadinanza hanno iniziato a saltare dalle cronache locali a quelle nazionali. Oltre ai furbetti peró, hanno dimostrato di essere interessati al sussidio mafiosi e camorristi nostrani, nonché vere e proprie associazioni a delinquere straniere costituitesi proprio al fine di intascare il sussidio. Perché questo è accaduto con la banda di cittadini italiani e romeni che, con la complicità o il ricatto degli impiegati del CAF, si presume abbiano tentato di truffare lo Stato per 60 milioni di euro.

 

Nelle intercettazioni, i componenti dell’associazione deridevano - giustamente - il sistema: «Sti cogl... dell’Inps hanno accettato le domande dei romeni», esclamava Oscar Nicoli, specializzato in assistenza fiscale agli stranieri e ora in carcere. Una lucida analisi quella del signor Nicoli, molto più diretta e priva di fronzoli delle decine di editoriali scritti nel tentativo di difendere il reddito di cittadinanza, che ormai, più che un sussidio, è diventato una bandiera ideologica. Chi lo critica è destinato ad essere etichettato come un classista che odia le persone indigenti, chi lo difende, come un misericordioso. Eppure, se avessimo fin da subito abbandonato ogni retorica, sarebbe apparso evidente fin dall’inizio come il meccanismo faceva acqua da tutte le parti e che in quelle enormi falle si sarebbe infiltrata, prosperando, la criminalità.

 

Lo hanno ben capito gli italiani che, alla faccia della retorica dei buoni, in maggioranza bocciano senza pietà il sussidio: il 53%, secondo un sondaggio Ipsos, è contrario.

D’altronde, in un Paese in cui la burocrazia è sconnessa e inefficiente, in cui gli uffici fanno fatica a parlarsi fra di loro, in cui l’informatizzazione è, in molti casi, un miraggio e la transizione digitale un sogno al di là da venire, cosa avremmo dovuto aspettarci? Ma il fallimento del reddito di cittadinanza non è soltanto nella facilità con cui le regole sono aggirate, trasformando uno strumento di lotta alla povertà in una truffa ai danni dei contribuenti. Ci avevano promesso che il reddito avrebbe «abolito la povertà»: eppure non raggiunge la metà delle persone in stato di indigenza. Ci avevano promesso che il reddito avrebbe favorito l’occupazione: eppure soltanto 1 percettore su 7 è occupato e questo dato non ci dice se l’occupazione sia stata trovata tramite i centri per l’impiego o in autonomia. Aggiungere a ciò che un posto di lavoro creato con il meccanismo del reddito costa 52000 euro, contro i 25000 che costa al datore di lavoro in media un operaio.

 

Ci avevano promesso che avrebbe addirittura stimolato i consumi: verrebbe da dire, con tragica ironia, che in effetti questa promessa è stata rispettata, quanto meno per i consumi di champagne e l’acquisto di auto di lusso.

Di fronte a un tale disastro, la riforma voluta da Draghi, per quanto sia sicuramente un passo in avanti che corregge le clamorose storture della legge, apprezzabile soprattutto nella misura in cui prevede una forma di controllo preventivo dei requisiti più accurato, appare come assolutamente insufficiente. Soprattutto perché, senza una riforma profonda dei centri per l’impiego e della pubblica amministrazione, che richiederebbe anni per veder dispiegati i suoi effetti, il sussidio non è più un mezzo per far prendere fiato in attesa di un’occupazione, ma diviene di fatto uno stipendio di Stato. Portandoci di fronte all’ennesimo fallimento della politica di questo Paese, nei confronti non solo delle aree più depresse, come il Mezzogiorno, ma soprattutto dei giovani che lì vivono, costretti a scegliere fra la fuga all’estero o l’elemosina di Stato: uno Stato che non scommette su di loro attraverso incentivi alle imprese affinché assumano, decontribuzione affinché nelle tasche dei lavoratori vi sia più denaro, così da stimolare davvero i consumi, ma che li rende dipendenti dalla mancia della politica. Perché il vero «programma di emancipazione di Stato» - così lo definisce sul Corriere della Sera De Bortoli - non è e non può essere un sussidio, bensì il lavoro, che emancipa non solo dalla povertà ma anche e soprattutto dalla morsa invadente dello Stato.
 

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