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Anche Alessandro Zan ammette: il fallimento del ddl è stata colpa di Enrico Letta

Riccardo Mazzoni
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Calato il polverone della propaganda, la verità sull’affossamento al Senato della legge Zan sta via via emergendo, e disvela la cattiva coscienza non del centrodestra né delle arguzie regolamentari di Calderoli, ma del Pd di obbedienza lettiana: resta ancora da decifrare se quello del segretario democratico sia stato un piano machiavellico per perdere deliberatamente una battaglia identitaria e appuntarsi poi le medaglie sul petto, oppure, più prosaicamente, un incidente di percorso provocato dall’arroganza che gli ha fatto perdere di vista la matematica parlamentare. Ma inopinatamente l’interpretazione autentica l’ha fornita proprio Zan, che era stato incaricato da Letta di cercare una mediazione in extremis e non ci ha neanche provato. Impazza sui social, infatti, un video con le sue dichiarazioni a «Porta a Porta» in cui dice testualmente: «L’identità di genere non è stata inserita nella mia legge per parlare di transizione o di sesso percepito o meno... La definizione poteva anche essere tolta... Se noi toglievamo l’articolo uno dove c’era quella definizione, che è imperfetta e che si poteva migliorare, non cambiavamo nulla della legge. Noi eravamo disponibili a togliere l’articolo uno e addirittura anche l’articolo quattro...».

 

 

Parole sorprendenti, che gettano una lunghissima ombra sull’atteggiamento del Pd, visto che non solo il centrodestra, ma anche Italia Viva e una parte dello stesso Partito democratico avevano chiesto per mesi di superare lo scoglio rappresentato da quegli articoli per arrivare a una rapida approvazione della legge, ma si sono trovati sempre di fronte a un muro ideologico che ha impedito ogni apertura di dialogo. Quindi, alla luce della sua ultima versione dei fatti, Zan entra in contraddizione con sé stesso e con tutte le durissime requisitorie contro «chi non voleva nessuna legge per giochetti di Palazzo» con vista Quirinale. Nei giorni dopo lo stop alla sua legge, Zan aveva detto: «Meglio nessuna legge che uno schifo di legge. Loro volevano uno schifo di legge che escludesse le persone trans, che togliesse il riferimento all'identità di genere... Si può mediare su tutto, ma non sulla dignità delle persone. Quando Italia Viva, Forza Italia e la Lega chiedevano di togliere l’identità di genere, come potevo accettarlo?». Ma non era la stessa identità di genere normata da quell’articolo uno che ora Zan sostiene invece di essere stato favorevole a cancellare? Evidentemente qualcosa non torna, tanto che l’accusa di aver voluto giocare sulla pelle delle persone ora viene dirottata sulle spalle di chi non ha voluto trattare, e infatti la parte più ragionevole della sinistra sta cercando di correre ai ripari.

 

 

Cuperlo e Manconi, ad esempio, si sono esposti con un articolo a doppia firma in cui sostengono che, sì, dotare l’Italia di una norma di contrasto all’odio omotransfobico rappresenterebbe un obiettivo storico, «ma affinché sia tale bisogna che la norma non appaia e soprattutto non sia – oltre che illiberale – inutilmente declamatoria e priva di efficacia». E non a caso propongono la soppressione proprio degli articoli uno e quattro, quello sulla libertà di espressione, con una critica neanche troppo velata all’impostazione della legge Zan. Anche la senatrice Fedeli chiede al suo partito di mobilitarsi «per costruire alleanze larghe, necessarie a centrare l’obiettivo di avere in questa legislatura una buona legge di civiltà e di valore storico». Piovono distinguo, dunque, sulla linea di Letta del tanto peggio, tanto meglio, e in Parlamento i giochi potrebbero riaprirsi.

 

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