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Centrodestra, tutti i retroscena della battaglia per il Quirinale

Riccardo Mazzoni

Per comprendere appieno quanto sia cruciale per il centrodestra la prossima partita del Quirinale, basta dare uno sguardo retrospettivo e pensare a come sarebbe cambiata la storia d’Italia se negli ultimi trent’anni sul Colle ci fosse stato un presidente di centrodestra. Ecco un breve ma significativo memorandum. Nel 1994, dopo le storiche elezioni che segnarono la disfatta del postcomunismo riverniciato, ci fu subito quello che Berlusconi definì eufemisticamente «un imbroglio», con Scalfaro che convinse Bossi a sostenere il governo tecnico di Dini dopo l’avviso di garanzia, poi finito giudiziariamente nel nulla, recapitato al premier mentre presiedeva un vertice internazionale. La rivoluzione liberale votata plebiscitariamente dagli italiani fu quindi uccisa in culla dal combinato disposto di volontà quirinalizia e supplenza giudiziaria, una miscela che avrebbe poi influenzato tutta la seconda Repubblica.

Se Scalfaro apparve subito come il nemico dichiarato di Berlusconi, un corpo estraneo alla politica e per questo da rimuovere, Ciampi fu invece un avversario più discreto e felpato, ma ugualmente implacabile ne confronti dei governi di centrodestra dal 2001 al 2006. Non esitò a bloccare, ad esempio (era l’aprile del 2003), la legge Gasparri sul riassetto del sistema radiotelevisivo: tra le motivazioni, il contrasto con una sentenza della Consulta e il richiamo a un decreto legge dichiarato incostituzionale. Il 16 dicembre del 2004 il Capo dello Stato non avrebbe poi firmato, rinviandolo quindi alle Camere, la riforma dell’ordinamento giudiziario. E nel 2006 stessa sorte toccò alla legge Pecorella sulla inappellabilità delle assoluzioni di primo grado. Ma il capolavoro Ciampi lo avrebbe poi fatto sulla nuova legge elettorale, imponendo premi di maggioranza regionali per il Senato che determinarono una forte instabilità politica per la diversa consistenza delle maggioranze nei due rami del Parlamento.

  

Napolitano non è stato da meno. Anzi. Il 6 febbraio del 2009 si rifiutò di firmare il decreto Eluana, varato dal governo per bloccare la sentenza che dava la possibilità a Beppino Englaro di lasciar morire sua figlia togliendole l’alimentazione artificiale. Berlusconi replicò con fermezza: «Senza la possibilità di ricorrere ai decreti legge tornerei dal popolo e chiederei di cambiare la Costituzione». Ma non fu l’unica fibrillazione istituzionale: il 7 ottobre il centrodestra protestò infatti dopo la bocciatura del lodo Alfano da parte della Consulta, divenuta sempre più - rischio paventato da Calamandrei durante i lavori dell’Assemblea costituente - un organo percepito come «politico». L’anno successivo, il 31 marzo, il presidente della Repubblica rinviò alle Camere il ddl sul lavoro, che secondo l’opposizione consentiva di aggirare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sui licenziamenti. Napolitano espresse le sue «serie perplessità», in linea col pansindacalismo della Cgil.

Ma fu nell’autunno del 2011, la stagione dei picchi di spread, dell’Italia sull’orlo del precipizio greco, che il Presidente gettò la maschera. Berlusconi governava da tre anni, dopo aver stravinto le elezioni del 2008. Fu il Quirinale a farlo cadere, a decidere di non far votare gli italiani sotto la neve e a dare vita al progetto di Monti. Già in estate Napolitano aveva pensato al professore della Bocconi come nuovo premier, circostanza confermata dallo stesso Monti. Le testimonianze fornite da Alan Friedman non lasciano margine a interpretazioni diverse. E non era certo rispettoso della Costituzione e del voto degli italiani preordinare un governo che avrebbe stravolto il responso delle urne, quando la bufera dello spread doveva ancora abbattersi sull’Italia.

Scalfaro, Ciampi, Napolitano: tre presidenti, con toni e modalità diverse, espressione degli interessi della sinistra. Ci sono molte similitudini tra i motivi che spinsero Scalfaro a ispirare il ribaltone del ’94 e quelli che indussero Napolitano al cambio di governo del novembre 2011. Scalfaro detestava Berlusconi, Napolitano probabilmente no, ma entrambi agirono in controtendenza con la volontà degli elettori. È un fatto che l’Italia nel 2011 fu consegnata alla grande speculazione finanziaria internazionale, che fece salire alle stelle lo spread per cacciare da Palazzo Chigi il premier espressione della volontà popolare. Tutti concordano nel definire determinante il ruolo del capo dello Stato, che con una forzatura trasformò di fatto la Repubblica da parlamentare a presidenziale.

La mancata alternanza al Quirinale ha spostato anche gli equilibri della Corte costituzionale, massimo organo di garanzia della Repubblica, da quasi trent’anni composta da una maggioranza di esponenti vicini alla sinistra. Fra le decisioni più «politiche» spicca quella sul lodo Alfano, che pure era stato scritto seguendo riga per riga le indicazioni date proprio dai giudici costituzionali quando avevano respinto il lodo Schifani. E non è certo un caso se, dei componenti della Corte considerati vicini al centrodestra, nessuno è mai stato di nomina presidenziale.
Questo rapido excursus dovrebbe essere da monito per le anime sparse del centrodestra tentate di fare da sponda alle mire del Pd, che senza mai aver vinto le elezioni, è quasi ininterrottamente al governo da dieci anni e ora pretenderebbe, col 12% dei parlamentari, di mettere di nuovo a segno l’accoppiata Palazzo Chigi-Quirinale. Un’aspirazione che dopo il naufragio lettiano sulla legge Zan diventa tutta in salita. Per la prima volta il centrodestra controlla il 46% dei grandi elettori e ha (avrebbe) il dovere di provarci, soprattutto se Draghi - come pare - alla fine resterà dov’è.