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Dal successo alla polvere. Capolavoro alla rovescia di Enrico Letta tra elezioni e ddl Zan

Riccardo Mazzoni
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Il capolavoro alla rovescia di Enrico Letta sulla legge Zan ha subito trasformato in una vittoria di Pirro il cappotto rifilato al centrodestra nel voto delle grandi città e orgogliosamente celebrato martedì nella direzione del partito da un segretario che, anche sull’onda della rielezione alla Camera, si sentiva già il re Mida della sinistra. Ma l’arroccamento ideologico sull’intangibilità del testo contro l’omotransfobia - un ircocerevo giuridico ampiamente perfettibile - cui ha fatto seguire domenica una finta apertura che si è dimostrata né tattica né strategica, ha portato ieri a un’autentica disfatta nell’aula del Senato, nonostante che lo schieramento contrario al non passaggio agli articoli fosse numericamente in vantaggio, almeno sulla carta. Da una parte, infatti, c’erano i 75 senatori del Movimento Cinque Stelle, 38 del Pd, 6 di Liberi e uguali, una quindicina del gruppo Misto e Autonomie, oltre ai 17 di Italia Viva, per un totale di 151; dall’altra i 50 senatori di Forza Italia, 20 di Fdi, 64 della Lega e 7 dell’area cattolica, in tutto 141. Eppure la «tagliola», ovvero la richiesta di non passaggio agli articoli fatta da Lega e FdI, è passata a scrutinio segreto con 154 voti favorevoli, 131 contrari e 2 astenuti.

 

 

Ai sostenitori della legge Zan sono mancati dunque, come minimo, una ventina di voti, ed è già iniziato lo scaricabarile tra i gruppi, con i renziani nel mirino, anche se è più probabile che la pattuglia dei franchi tiratori sia rintracciabile trasversalmente nella molto presunta maggioranza favorevole. Una partita giocata nel peggiore dei modi, insomma, tanto che a caldo l’ex ministra Fedeli è arrivata a chiedere le dimissioni «di chi ha gestito questa vicenda, dalla presidenza del gruppo alla Commissione Giustizia», non mancando di ricordare che era stato il leader del partito in persona a garantire che «i numeri ci sono», e che bisognava andare avanti. Era, in tutta evidenza, il ruggito del coniglio, o peggio ancora l'arroganza di un generale che non conosce le proprie truppe e le ha mandate allo sbaraglio in una battaglia simbolicamente cruciale. Quello di ieri doveva costituire, in qualche modo, l’esordio sul campo del cosiddetto nuovo Ulivo allargato, l’ammucchiata di centrosinistra che dovrebbe presentarsi unita - con dentro Bersani, Conte, Renzi, Calenda e Bonino - per sconfiggere il centrodestra a trazione sovranista alle prossime politiche. Ma se era una prova generale, allora il direttore d’orchestra andrebbe cambiato, perché ha scelto uno spartito wagneriano quando invece bisognava suonare Chopin.

 

 

Bruttissima avvisaglia per il Pd, questa, in vista delle votazioni per il Quirinale, per due ordini di motivi strettamente connessi: prima di tutto Letta non è Renzi, che nel 2014 da segretario del Pd prima fece naufragare la candidatura di Prodi e poi riuscì a imporre Mattarella, a costo della rottura del Patto del Nazareno; poi, se l’obiettivo dichiarato è quello di far eleggere il nuovo Capo dello Stato con la maggioranza Ursula, staccando Forza Italia dai sovranisti, ieri alla prova del voto segreto il centrodestra ha retto e il variegato cartello delle sinistre vecchie e nuove si è sfaldato. Per cui Letta, che si sentiva già il kingmaker del Colle e il premier in pectore per il dopo Draghi, dovrà rifare molti dei suoi calcoli: il Parlamento è sovrano e quando si esprime a scrutinio segreto lo è ancora di più.

 

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