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Nel Pd è caccia ai traditori sul ddl Zan: già circolano i nomi dei franchi tiratori. Anche Conte sulla graticola

Marco Pratesi
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L’Aula del Senato è in tensione. Fuori, nei corridoi, sono tutti certi del risultato: il ddl Zan affonderà. I senatori del Pd sfoderano sguardi gravi, scrivono messaggi, vanno alla conta. Sperano in Forza Italia, ma i forzisti, dopo la riunione di gruppo, sono convinti: «terremo, compatti», dice la capogruppo Anna Maria Bernini. E in effetti l’unica defezione sembra essere stata quella della senatrice Barbara Masini, che aveva fatto coming out proprio in occasione della discussione dello Zan. Irritata dal muro contro muro, pare che il suo voto sia alla fine da conteggiare fra i due astenuti. E poi c’è Maria Rosaria Rossi, ex forzista passata fra le fila di Toti, molto vicina a Francesca Pascale, paladina dei diritti lgbt. Quando esce dall’aula all’improvviso, tutti la cercano. Rientra alla vigilia del voto e fa un cenno verso i banchi del Pd come a dire: «Ci sono». La Casellati apre le votazioni. Esplode il giubilio del centrodestra, ma nell’ala sinistra tanti sono i sorrisi ben nascosti sotto le mascherine. Il Ddl Zan è ufficialmente sepolto. All’appello mancano ben 16 franchi tiratori.

 

 

Si guarda a Italia Viva, ma negli uffici del Pd circolano già i nomi delle presunte defezioni: da Dario Stefano, a Stefano Collina, Valeria Valente, Valeria Fedeli, fino ad Eugenio Comincini e Alessandro Alfieri. «Chi oggi gioisce per questo sabotaggio dovrebbe rendere conto al Paese che su questi temi ha già dimostrato di essere più avanti delle aule parlamentari», scrive sui social Giuseppe Conte. Mangiando un tramezzino, un senatore commenta con un mezzo sorriso: «Sta parlando ai suoi?». E in effetti, la dinamica appare sempre più definita. Un vecchio radicale, che percorre quei corridoi da decenni, analizza: «I senatori del Pd hanno lanciato un messaggio a Letta utilizzando lo scrutinio segreto. Lo Zan è stato un po’ un anticipo di ciò che succederà al Quirinale se Letta non abbandona l’ipotesi Draghi e non torna a più miti consigli e, al contempo, una critica forte alla sua gestione del partito, soprattutto al suo flirt con i grillini. Quello dei 5 Stelle poi, pare un messaggio generico contro la leadership di Conte e lo schiacciamento sul Pd». Giá, perché la voce che si fa sempre più insistente nei palazzi è che Enrico Letta si sarebbe convinto di poter mandare Draghi al Quirinale, così da andare ad elezioni anticipate, forte del risultato delle amministrative e del logoramento del centrodestra.

 

 

Un sondaggio di qualche giorno fa di Swg che prevede un’astensione del 40% degli aventi diritto al voto alle prossime politiche e che individua fra i delusi dalla politica i no green-pass, elettori più naturalmente vicini al centrodestra, lo avrebbe rafforzato nel suo convincimento. Il risultato del voto di ieri però è stato che il segretario dem ha dimostrato di non essere in grado di controllare i gruppi parlamentari ma anche di essere totalmente dipendente dal sostegno di Italia Viva nella partita del Quirinale. Ora Letta sembra insomma traballare, così come la sua capogruppo a Palazzo Madama, Simona Malpezzi, da molti considerata inadeguata al ruolo. «Bisogna chiedere le dimissioni di chi ha gestito questa vicenda, dalla presidenza del gruppo alla Commissione Giustizia», sbotta Valeria Fedeli. Gli fa eco la grillina Maiorino: abbiamo lasciato la conduzione dei giochi al Pd e questo è stato l’esito. E in effetti il rischio dell’affondamento della legge con il voto segreto era palese per chiunque. Chiunque, tranne Enrico Letta, che si sarebbe fatto convincere da Alessandro Zan e Monica Cirinnà nella missione suicida. Il piano era chiaro: se la legge fosse passata, avrebbero festeggiato. In caso di sconfitta, il tweet di Fedez sarebbe stato assicurato. Un’operazione tutta mediatica che ha caratterizzato l’iter del provvedimento ma che si è scontrata con la dura realtà del Parlamento.

 

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