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La lezione di Roma, se la periferia non va a votare la sinistra "Ztl" si prende la città

Alessandro Giuli
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Quando le periferie metropolitane disertano le urne, la Ztl si prende la città. Così, in estrema e iperbolica sintesi, è possibile riassumere il senso della catastrofica prova elettorale del centrodestra a Roma. Dopo la calamitosa sindacatura grillina di Virginia Raggi, il grigio ma potente Roberto Gualtieri ha riconsegnato la Capitale alla sinistra pur essendo stato sorretto da un Partito democratico a corto di consensi complessivi (scavalcato perfino dalla lista di Carlo Calenda al primo turno) e non esattamente al massimo dello spolvero nel resto d’Italia. Se tutto ciò è potuto accadere, come del resto ci aveva fatto comprendere il professor Roberto D’Alimonte in una sua recente analisi sul Sole 24 Ore, dipende nell’essenza dal fatto che gli elettori delle banlieue romane hanno confermato l’altissimo tasso d’astensione registrato al primo turno, favorendo così l’apparente plebiscito di un Pd ancora capace di mobilitare risorse militanti, clientele e pacchetti di voti consolidati nel tempo. 

 

Il centrodestra può forse opporre con qualche ragione una lettura consolatoria della propria sconfitta, indubbiamente condizionata da una campagna d’odio ideologico tardonovecentesco senza precedenti e inquinata dalla drammatizzazione del conflitto nazionale intorno a temi estranei all’amministrazione cittadina (dal Green Passa in giù). Resta il fatto che la candidatura di Enrico Michetti ha rappresentato un’offerta tardiva – ancor più tardivo, se possibile, è apparso il ticket con il problem solver Guido Bertolaso proposto in extremis – e incompresa dal corpo elettorale romano. Il voto «contro» che cinque anni fa aveva gonfiato le vele della protesta populista pentastellata non si è saldato con quello della borghesia conservatrice e ha fatto mancare a Michetti persino l’obiettivo d’una sconfitta di misura. 

 

Da tale dato di fatto bisognerebbe ripartire, fermo restando il mancato rimpianto per la discesa in campo in prima persona di Giorgia Meloni (avrebbe vinto al primo turno, probabilmente) il cui orizzonte politico è ormai parametrato su scala nazionale e internazionale. E tuttavia, a posteriori, si può ammettere che una scelta politica sarebbe stata più efficace oppure che una soluzione civica meritava maggiore tempestività e concordia da parte dei partiti alleati. E qui si arriva al punto più dolente. Finora abbiamo sottolineato un po’ tutti che l’elettorato di centrodestra risulta più coeso rispetto ai leader dei partiti di riferimento. Non c’è da dubitare, inoltre, che quando verranno chiamati in causa i voti d’opinione (al più tardi nelle politiche del 2023) una parte consistente di astenuti alle amministrative ritroverà slancio e fiducia; non foss’altro perché sarà chiara l’alternativa alla diserzione: un monocolore giallorosso venato di tecnocrazia centrista. Cionondimeno, guai a sottovalutare la possibilità che nel frattempo il centrodestra sia imploso su se stesso, scoraggiando anche i più accesi militanti. Certe oscillazioni berlusconiane, unitamente al doppio volto leghista di governo e di lotta e ai complicati rapporti con l’opposizione solitaria dei Fratelli d’Italia, generano più di un dubbio sulla possibilità di realizzare una forte e credibile coalizione di governo. 

 

In questo quadro, il minimo che si possa fare è un’autocritica collegiale, combinata con la presa d’atto che senza una regia comune si dissolverà pure il miraggio dell’obiettivo condiviso: Palazzo Chigi. Di qui il consiglio non richiesto: per far fronte all’urgenza non bisogna attendere oltre, men che mai rinviando la questione a ridosso della partita per la successione di Sergio Mattarella al Quirinale, che anzi sarà una formidabile cartina di tornasole per verificare se il centrodestra esista ancora.

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