Brutta botta per il centrodestra, ma c'è una strada per tornare a vincere insieme
Niente giri di parole: è stata una bella botta per il centrodestra. Praticamente ovunque, con la sola eccezione di Trieste dove il sindaco uscente ce l'ha fatta a restare in carica per il rotto della cuffia. Perse proprio male sia Roma che Torino con distanze di quasi 20 punti al ballottaggio, non si è conquistata nemmeno una cittadina importante e alla fine della tornata se ne sono perse anche un paio forse più di quelle che si governavano cinque anni fa. Inutile perdere troppo tempo con analisi sugli errori compiuti: ce ne sono e ce ne saranno sempre, e non ne hanno compiuti pochi nemmeno gli avversari che pure hanno mantenuto le cinque grandi città che già avevano. Né stare a discettare su questo o quel candidato. I numeri dicono che nessun candidato, venisse da un profilo civico o da lunga carriera politica, ce l'ha fatta. In fondo il migliore risultato l'ha fatto chi prima era quasi sconosciuto, come Enrico Michetti che almeno al primo turno si era tenuto alle spalle tutti gli altri.
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Poi certo se i leader dei due partiti- M5s e Azione, esclusi dal ballotaggio- hanno fatto dichiarazione di voto esplicita per Roberto Gualtieri, era evidente che la strada fosse tutta in salita e che si partisse svantaggiati al secondo turno. La sconfitta c'è, e fa male, come hanno riconosciuto sia Giorgia Meloni che Matteo Salvini, ma non è una botta da ko. E dalle botte comunque ci si rialza anche subito. Proprio ieri, nel giorno della doccia fredda delle amministrative, su La7 Enrico Mentana faceva vedere il sondaggio politico nazionale della settimana che sembra dire l'esatto opposto: primo partito Fratelli di Italia, secondo la Lega ed entrambi in crescita dello 0,2% rispetto alla settimana precedente. Con Forza Italia sono al 47,5%, e con i movimenti lanciati da Giovanni Toti e Luigi Brugnaro arrivano poco sotto al 50%. Ogni partita è dunque aperta e se mai si potrà un giorno tornare a votare per rinnovare il parlamento nazionale nulla è perduto, anzi.
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Ieri la Meloni ha elencato fra i motivi interni della sconfitta un po' di confusione che albergherebbe nel centrodestra: “abbiamo in questo momento tre posizioni differenti”. E' vero: Forza Italia è quasi tifosa del governo di Mario Draghi, la Lega è un po' di governo e un po' di lotta, Fratelli di Italia rivendica la propria coerenza da partito di lotta. E' una debolezza? Macché: avere la capacità di rappresentare quelle diversità dal 1994 ad oggi è stata la sua forza, non una debolezza. Fra Lega e l'allora Msi c'erano distanze abissali nei toni (Umberto Bossi era il primo a chiamare “Fascisti!” gli alleati) come nei contenuti. E sono restate negli anni anche quando Gianfranco Fini svoltò con la sua Alleanza Nazionale. E' ricchezza politica, non un handicap sapere rappresentare istanze diverse, lo dimostra perfino la storia della Democrazia cristiana in tutt'altra epoca, quando riusciva a tenere dentro e rappresentare gli evidenti opposti.
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Era un'altra Italia e un altro mondo, certo. Ma qualcosa dal 1994 in poi è stato sempre simile: l'insofferenza degli italiani per un sistema che era diventato oligarchico e sempre meno nazionale, che non era più capace di rappresentare tutti e anzi tendeva a lasciare fuori i più. Il centrodestra ha raccolto quel grido che oggi verrebbe banalmente definito “populista”, e lo ha rappresentato resistendo a una ostilità evidente di tutti i poteri forti che quella oligarchia difendevano e continuano a difendere: élite finanziarie e industriali, cenacoli intellettuali e culturali, lobby politiche, giudiziarie e sindacali. Ha saputo rappresentare tutti raccogliendo milioni di voti e resistendo agli attacchi di quelle lobby che sono stati continui, spietati e violenti assai più della marmellatina fascio-giudiziaria confezionata dagli stessi protagonisti nell'ultimo mese e mezzo. Nemmeno paragonabili, e non vale la pena più di tanto di lamentarsi di quanto è accaduto.
Restano però quei due pilastri su cui ha poggiato il successo del centrodestra nella seconda Repubblica: sapere rappresentare le istanze in modo così largo, e in particolare di chi era lasciato ai margini della vita pubblica, e soprattutto saperle tenere insieme anche quando così diverse. Oggi con il 50-60% degli italiani che disertano le urne, questa capacità deve evidentemente essere recuperata. Certo è difficile farlo stando dentro un governo di maggioranza variopinta guidato da Mario Draghi, l'uomo che più di ogni altro simboleggia le elites. Ma certo non si può farlo piegando la testa a chi ti dice che devi essere bellino, sbarbatino e pulitino per bene per essere ammesso alla (loro) corte. Avrà insegnato qualcosa a qualcuno del centrodestra la parabola di Fini, il politico più promettente e abile che aveva quello schieramento. A forza di rinnegare ogni cosa di sé, di imparare a dire la parolina giusta nel momento giusto, di volere piacere a quelli che ti impongono come piacere, quando finalmente era tutto a posto per ricevere l'agognato invito a corte, non è arrivato perché non serviva più a nulla: dietro di lui non c'era ormai nessuno.
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Quindi cari Salvini e Meloni, fregatevene. Non state nemmeno a sentire quelle sirene bugiarde che vi vogliono infilare in quelle gabbie novecentesche che non hanno più alcun senso e sono lontane per fortuna dalla stragrande maggioranza degli italiani. Date voce all'Italia che non ne ha, anche a quella che per qualche anno ha cercato di farsi rappresentare dal M5s e poi ne è restata delusa. E concentratevi sull'altro pilastro che ha tenuto insieme il centrodestra: un federatore con i controfiocchi quale è stato Silvio Berlusconi. Oggi non ha più i voti e nemmeno la voglia di un tempo, e lo si capisce. Ma senza uno come lui il centrodestra non sta in piedi e non è in grado di vincere. Fino ad oggi in chi poteva essere erede non abbiamo visto emergere questa vocazione: leader anche bravissimi del proprio partito, ma capaci di prescinderne per tenere insieme anche gli altri no. Può non essere la vocazione di un leader politico, non è una critica né all'uno né all'altra. Ma bisogna capire che uno così ci vuole. Ed è urgente che ci sia.