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In politica estera Mario Draghi fa flop. Il retroscena sugli zero tituli del governo

Luigi Bisignani
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Caro direttore, niente green pass per Super Mario in politica estera. In questo terreno di gioco il Premier sembra come la sua Roma in Champions quando prendeva carrettate di gol. Ha iniziato l’avventura di Palazzo Chigi votando no allo stop all’embargo contro Cuba (che dura da 61 anni) e ha proseguito dando del «dittatore» a Erdogan, pur cercando con quel «ma ne abbiamo bisogno» di metterci una pietosa pezza. E ancora, questa settimana, un flop dietro l’altro, culminato con il G20 straordinario sull’Afghanistan, fino alla costituzione in giudizio, a sorpresa e all’insaputa di tutti, contro l’Egitto per la vicenda del povero Regeni, che non trova pace né giustizia, in un processo subito rimandato al Gup. Mario è indubbiamente «Super» in economia ma sul terreno della politica internazionale spesso finisce per impantanarsi, con il rischio di offuscare la sua stella. Forse dovrebbe lasciare qualche spazio in più al suo giovane ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che almeno guai fino ad oggi non ne ha fatti, tanto da essere entrato nelle simpatie della Merkel.

 

 

A Chigi, ormai, il nervosismo dello staff del Premier si taglia con il coltello e sono in molti ad azzardare qualche avvicendamento dopo le scintille tra il sottosegretario alla Presidenza Roberto Garofoli, sottilissima mens giuridica, e il modesto segretario generale, Roberto Chieppa, definito l’Hiroo Onoda -l’ultimo giapponese - «contiano» di Piazza Colonna. Scintille alimentate dall’arzillo Richelieu del Palazzo, il magnifico professor Giavazzi che oramai pare si impicci persino di nomine nella giustizia amministrativa. Ma, gossip a parte, le cancellerie di mezzo mondo hanno commentato con imbarazzo la veemenza da «Sturm und Drang» con la quale Draghi, a giochi ormai fatti da quegli apparati d’intelligence che contano sul serio, ha preteso il G20 straordinario sull’Afghanistan. Una perdita di tempo per quei grandi del mondo che c’erano, mentre brillavano per la loro assenza lo zar Putin e il presidente cinese Xi. Alla domanda sulla loro mancata partecipazione, il nostro premier ha sussurrato, con innocente candore, che non è stato un problema di carattere politico. Allora di cosa mai si è trattato, illustre presidente? Un fatto personale? Tra chi? Tra loro o con Lei? Probabilmente quel giorno Draghi avrebbe fatto meglio ad andare alla celebrazione dei 70 anni di «Elettronica Spa», azienda storica della famiglia Benigni, dove almeno lì si è parlato seriamente di difesa comune europea.

 

 

C’era anche il ministro della Difesa Lorenzo Guerini assieme al gotha delle Forze Armate, dal generale Graziano, presidente del Comitato Militare dell’Unione Europea, al riservato e acuto Gianni Caravelli, direttore dell’Aise. Presente anche l’élite industriale che, senza essere stata consultata o perlomeno avvertita, ha saputo solo poche ore dopo che Palazzo Chigi si sarebbe costituito parte civile contro il Governo egiziano nel processo per l’omicidio Regeni. Una giusta presa di posizione che avrebbe meritato però di essere preparata con grande meticolosità per il rischio di vanificare il lento lavoro di scongelamento con Il Cairo portato avanti dalla Farnesina e dalle grandi aziende italiane, a partire dalla Fincantieri di Giuseppe Bono, da Leonardo di Luciano Carta ma anche da personaggi di spessore come l’ex ministro Marco Minniti presidente della Fondazione «Med-Or». Turchia, Libia, Egitto, con tutto quel che consegue, non hanno portato fortuna al Premier che però adesso potrebbe, ad esempio, sfruttare gli ottimi rapporti di Di Maio soprattutto con Tirana e gli altri paesi dì quell’area per riprendersi la leadership dei Balcani.

Non è un mistero che il futuro in quella regione, così come aveva intuito Gianni De Michelis nel 1989, sia per l’Italia un’indiscutibile priorità. Terra amica, è diventata un hub energetico strategico per il passaggio di gasdotti e oleodotti. L’Europa lì ha perso tempo e terreno, lasciando spazio ad altri player internazionali (Cina, Russia e Turchia). A meno che, come è già successo per la Libia, non saranno i francesi a giocare questa partita a tutto svantaggio di Roma. Anche se a dicembre, con Macron in uscita, firmeremo con i transalpini «Il Trattato del Quirinale», un accordo di collaborazione che certamente farà ingelosire e irritare la Germania. Sui Balcani, a cui anche il Vaticano guarda con interesse per la presenza di tante comunità religiose, andrebbe riattivato un Segretariato, voluto con lungimiranza dal governo Berlusconi, magari coinvolgendo una personalità carismatica e riconosciuta capace di coniugare energia con geopolitica. Sarebbe per Roma una grande opportunità ma Super Mario assomiglia a Bergoglio quando la domenica apre la finestra e comunica urbi et orbi qualche decisione improvvisa e non concordata. Draghi, come il Pontefice, non ama consultarsi con nessuno, neppure con i capi delegazione dei partiti nel suo governo (Gelmini, Patuanelli, Franceschini Giorgetti, Speranza, Bonetti) anche se, a differenza del favelloso Francesco, parla poco e non esterna pubblicamente. Come suggerirebbe Seneca: «Comandare a se stessi è la forma più grande di comando». Ma il più delle volte finisce male.

 

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