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Elezioni comunali 2021, Mario Draghi è più forte ma resta l'incognita del voto anticipato

Alessandro Giuli
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Dall'alto di Palazzo Chigi, Mario Draghi può guardare all'esito del voto amministrativo con relativa indifferenza; se non perfino con il caratteristico compiacimento del convitato di pietra che vale ben più della posta in gioco. La fredda verità delle suggestioni della vigilia: fatte le debite distinzioni fra città e città, possiamo dire che il Partito democratico trascina la sua variopinta alleanza goscista alla vittoria nel primo turno di Napoli, Milano e Bologna; posiziona di fino Roberto Gualtieri in pole position per scavalcare Enrico Michetti (centrodestra di rito meloniano) e strappare così il Campidoglio a Virginia Raggi; si mostra assai competitivo anche a Torino. Tutto ciò nei capoluoghi più importanti e al netto dei voti (anche disgiunti) di lista che, se confermati, tramortiscono il Movimento Cinque stelle e inducono a uno stupore destabilizzante più a destra che altrove.

In altre parole: il Pd di Enrico Letta si conferma il partito del potere che sopravanza i consensi, mentre il centrodestra a trazione sovranista dovrà avviare una seria riflessione circa gli squilibri interni che hanno condotto alle cattiva gestione, più che alla scelta, dei candidati sindaci (lo ha anticipato Silvio Berlusconi in pieno silenzio elettorale, lo ha confermato Matteo Salvini ieri). Ma dal punto di vista di Draghi? Poco o nulla cambia, quanto alla stabilità coatta della larga maggioranza che ne sorregge il premierato.

Alla parabola discendente di Forza Italia fa da riscontro la robusta ossigenazione del secondo «partito di sistema» che si candida a costituire la base parlamentare permanente del draghismo: il Pd, per l'appunto, che forse metterà con fermezza sul tavolo la propria volontà di mantenere l'ex presidente della Bce al proprio posto sino a fine legislatura. Addio sogni quirinalizi, dunque? Chissà. Certo è che il voto di ieri restituisce un'immagine sovrapponibile al dagherrotipo incastonato nella cornice dell'attuale esecutivo di emergenza: la competenza vince sulla rappresentanza e perciò, laddove le tradizionali nomenclature di partito riescono a offrire dei nomi di prima grandezza, lo sciame del consenso generalista s' infrange sull'esigenza di essere ben governati.

E Draghi è esattamente l'effigie animata in cui si riassume tale fenomeno. La popolarità contrastata, acerba e ancora infruttuosa dei Fratelli d'Italia (vedi il caso Roma) e le innegabili difficoltà complessive della Lega salviniana - vale a dire i problemi dei due partiti maggiormente sensibili finora ai richiami delle urne anticipate - stabilizzano l'immaginario partito trasversale che vede in Draghi il perno di ogni assetto futuro. Sia che si tratti di cementarlo a Palazzo Chigi a discapito dell'ascesa al Quirinale, sia che lo s' immagini in cima al Colle portato sugli scudi del settennato dall'onda di una crescente curva presidenzialista. Ma c'è un ma, come sempre.

A smentire la nostra lettura potrebbe essere una sopraggiunta hybris già vista sulla scena nazionale nel 1993, quando il successo progressista alle comunali condusse la sinistra ad allestire la «gioiosa macchina da guerra» travolta un anno dopo dall'inattesa discesa in campo del Cavaliere. Non è da escludere che un'analoga tracotanza finisca per ottenebrare la segreteria democratica, rafforzando una tentazione elettorale già affiorata carsicamente nell'estate del Papeete 2019 e nel febbraio di quest' anno, quando il Pd ha oscillato tra l'innato «sensodi responsabilità istituzionale» dei suoi mandarini sfociato nel doppio ribaltone e la richiesta di convocare i comizi («Conte ter o urne...»). E tuttavia il notevole tasso di astensione riscontrato in questa tornata potrebbe consigliare un po' a tutti gli attori di mantenere lo status quo. Finché possibile.

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