retroscena
C'è una signora per il Colle, perché la Moratti insidia Draghi
Caro direttore, è proprio il caso di dire «cherchez la femme»! Spunta da Milano una forte candidatura rosa per il Quirinale, proprio ora che Mario Draghi si va convincendo che quella è una partita che deve portare a casa. E non si tratta di Marta Cartabia, cocca di Mattarella, ma di Letizia Moratti.
L’algida signora dal cuore d’oro, che non solo è seduta su un grande patrimonio ma è anche inserita nel fulcro del potere bancario e finanziario che vuole puntare su di lei: proprio quel potere del quale conosce bene tutti i segreti avendoli respirati sin da bambina dal papà Paolo Brichetto Arnaboldi, eroe partigiano e ras del brokeraggio assicurativo e poi da adulta, come seconda moglie di un Moratti che ha riversato su di lei non solo un amore infinito, ma anche milioni di euro per supportarne l'ascesa nelle avventure vincenti e perdenti per Palazzo Marino e San Patrignano, dove per oltre vent'anni ha trascorso ogni weekend utilizzando il suo jet personale.
Divertente e illuminante fu la risposta del Ministro Tremonti di fronte alle continue richieste d’aiuto della Moratti, all’epoca Ministro dell’Istruzione: «Letizia, questo è il governo, non è mica tuo marito».
Spietate le critiche collezionate nelle sue numerose vicissitudini pubbliche, presidente della Rai, ministra dell’Istruzione e sindaca di Milano fino ad arrivare ad oggi, alla vicenda dei vaccini legati al Pil. Più volte si è trovata su crinali insidiosi lambiti dal conflitto di interesse nei vari incarichi ricoperti nel privato, fra tutti con il gruppo Carlyle, oppure per affinità familiari, quando era presidente di Ubi a beneficio della compagnia petrolifera Saras. La condanna della Corte dei Conti costituisce l’inciampo peggiore che l’ha anche giustamente ferita, anche a causa di una motivazione infamante: «disinteresse dell’interesse pubblico». Conta su un rapporto personale con Silvio Berlusconi, che la volle Ministro, e ora anche con Matteo Salvini, che l’ha piazzata in extremis in Regione Lombardia come Assessore alla Sanità, ruolo grazie al quale corteggia tutti i ministri del Pd di passaggio sotto la Madonnina.
Essere donna dell'alta borghesia milanese non sembra però caratteristica sufficiente a convincere Giorgia Meloni a votare per lei a partire dal quarto scrutinio. Proprio quello su cui punta anche Mario Draghi, il quale si sta convincendo che restare a Palazzo Chigi diventerebbe per lui un massacro. Anche per le tante promesse fatte a Ursula Gertrud von der Leyen, che pende dalle sue labbra, che rischiano di diventare quelle di un marinaio per l’impazzimento della politica che non riesce più a governare e per la modestia dei suoi ministri. La riforma Cartabia della giustizia penale è solo una legge delega e la riforma del fisco annunciata per luglio è ancora nella mente degli dei, visto che Draghi non sa più come camuffare la revisione degli estimi catastali con il conseguente aumento delle tasse sulla casa, così come la legge sulla concorrenza. Di pari passo, nel Governo continua a crescere lo scontento nei confronti del ministro Andrea Orlando, ora che si avvicina il vero sblocco dei licenziamenti il prossimo 31 ottobre, che non prelude certo ad una bella e serena notte di Halloween.
Ma la cartina di tornasole si trova a pagina 110 della Nota di aggiornamento del Def: due capoversi, pare, suggeriti dal capo di gabinetto del ministro dell’Economia Daniele Franco, Giuseppe Chinè, consigliere di Stato figlio di un influente e temuto democristiano calabrese di Bovalino, che si è fatto le ossa con il leghista Roberto Calderoli e poi con Beatrice Lorenzin e ora sguazza anche nel mondo del calcio. Lì è messa nero su bianco l'incapacità del Governo di portare a casa le opere del Recovery Plan. È scritto che per la realizzazione delle 24 linee di investimenti previste serve «l’adozione di atti di normativa primaria e secondaria o di atti amministrativi diretti a disciplinare specifici settori da cui dipende l’utilizzabilità di risorse finanziarie dedicate per linee di intervento»: vale a dire che le opere non si realizzano ma si disegnano solo sulla carta. E, come se non bastasse: «Il governo punta ad inviare la prima rendicontazione relativa al Pnrr entro il mese di gennaio 2022».
Una data sospetta e in ritardo, guarda caso proprio a ridosso della scadenza quirinalizia. Super Mario potrà così presentarsi all'appuntamento per il Colle con tutte le sole scartoffie burocratiche in regola. E così via, passando per strade, ferrovie, porti e progetti più o meno green che per il momento stanno arricchendo solo progettisti ed avvocati. Per gli investimenti veri, chi vivrà vedrà.