firme per i referendum
La pericolosa deriva della democrazia digitale. Così si rischia di affossare del tutto il Parlamento
I referendum sono stati uno strumento fondamentale per l’avanzamento dei diritti civili in Italia, ma già in passato un loro uso eccessivo ha generato disaffezione e astensionismo negli elettori. Ora, l’avvento delle firme digitali ha aperto una nuova frontiera altrettanto insidiosa, e il rapidissimo raggiungimento delle 500 mila firme per quello sulla liberalizzazione della cannabis ha fatto scattare l’allarme rosso, visto che si profila una marea referendaria in grado di bypassare il Parlamento a colpi di quesiti improntati a compiacere le pulsioni demagogiche piuttosto che a dirimere grandi questioni politico-sociali, come fu per il divorzio e per l’aborto. Vale la pena ricordare, a questo proposito, che la Camera. ai tempi del governo gialloverde, approvò in prima la proposta di legge grillina per introdurre il referendum propositivo, il cui iter si è poi (fortunatamente) fermato al Senato. Nella versione approvata a Montecitorio la legge prevedeva la raccolta di 500 mila firme, tempi obbligati per la risposta del Parlamento e, nel caso di dissenso con i promotori, il ricorso al voto popolare (referendum vincolante cittadino) con un quorum approvativo di partecipazione solo del 25%. Una sorta, insomma, di sfiducia "distruttiva" nei confronti del Parlamento da parte di agguerrite minoranze organizzate, con il Parlamento ridotto a una succursale della piattaforma Rousseau.
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Un rischio che si ripropone ora con l’introduzione della firma digitale nella legge sulle semplificazioni. Per questo già si parla di correttivi urgenti da apporre, sia alzando a 800 mila il numero delle firme necessarie per indire i referendum, sia - in funzione antiastensionismo - calcolando il quorum di partecipazione non più sugli aventi diritto al voto, ma sul numero di elettori che ha partecipato alle ultime elezioni politiche. In gioco c’è lo stravolgimento del necessario equilibrio tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. La strategia grillina, finita provvisoriamente in sonno a causa del Covid e del ridimensionamento politico del Movimento, puntava al superamento della democrazia rappresentativa, ritenuta ormai una "reliquia storica", anche se invece resta l’unica forma costituzionale in grado di esprimere compiutamente la volontà popolare. Perché l’eccesso di democrazia diretta è a tutti gli effetti una distorsione della stessa idea di democrazia. Non a caso il referendum concepito dai Padri Costituenti al termine di un dibattito molto travagliato era inteso solo come un arricchimento della democrazia rappresentativa, un istituto “partecipativo” che valorizza la volontà popolare ma la cui portata effettiva viene fortemente influenzata dalla volontà degli attori politici, sia in fase di iniziativa che in quella di interpretazione finale del voto. Tanto che il risultato referendario ha sempre bisogno di successivi interventi normativi e applicativi, che in qualche occasione non sono stati esattamente coerenti con la volontà popolare.
Ebbene: sia il referendum propositivo che la firma digitale, con un quorum partecipativo troppo basso rispetto alla popolazione - nel ’48 gli italiani erano 46 milioni, ora siamo 60 - metterebbero a disposizione dei promotori un’arma micidiale per condizionare la vita pubblica e imporsi surrettiziamente sul Parlamento: una sorta di derby permanente tra popolo e casta che metterebbe in fibrillazione non solo la stabilità dei governi, ma le stesse istituzioni. Si profilerebbe, insomma, una democrazia deformata che, incapace di decidere, delega ai cittadini il compito di prendere le decisioni che un Parlamento sempre più delegittimato non riesce più a prendere. Ma archiviate le utopie di Casaleggio, la democrazia italiana non può diventare una enorme piattaforma Rousseau.