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Quell'ambientalismo ideologico che frena da anni l'Italia. Ora c'è Cingolani nel mirino

Riccardo Mazzoni
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Gli anatemi ecologisti che stanno piovendo sul ministro Cingolani per la sua apertura alle nuove tecnologie nucleari - con reattori più piccoli, più sicuri e meno costosi, senza uranio arricchito e acqua pesante - sono l’ultimo retaggio dell’ambientalismo ideologico che si rifugia nel passato mentre il mondo guarda al futuro. Ma se il mantra ambientalista è la lotta al riscaldamento globale, la doverosa ricerca di tecnologie carbon free non può certo escludere in modo aprioristico il nucleare pulito, su cui peraltro molti Paesi stanno già lavorando per una transizione economicamente e socialmente sostenibile. La realtà è che i poderosi investimenti sulle energie rinnovabili non hanno finora dato i risultati sperati, e l’ambizioso obiettivo che ha fissato l’Europa col Green Deal - azzerare le emissioni di Co2 nette entro il 2050 e ridurle del 55% entro il 2030 – oltre a essere estremamente ambizioso, avrà ricadute pesantissime sulle nostre imprese, col rischio di pagare anche un altissimo costo sociale. Dunque puntare sul nucleare non è un’eresia, perché è l’unica fonte in grado di competere davvero con carbone e gas, ma non sorprende che i luddisti grillini, con in testa il nuovo leader Conte, abbiano subito richiamato all’ordine Cingolani, che pure era entrato nel governo Draghi come loro ministro di riferimento.

 

 

Il rapporto dell’Italia col nucleare, del resto, è sempre stato condizionato dagli umori popolari, che dopo la sciagura di Chernobyl dell’87 e quella della centrale di Fukushima del 2011, con due referendum dagli esiti plebiscitari hanno bocciato non solo l’apertura di nuove centrali, ma anche la sola ipotesi di pianificare il ritorno al nucleare una volta acquisite nuove evidenze scientifiche sui profili relativi alla sicurezza. All’inizio del suo secondo mandato, nel 2001, Berlusconi aveva puntato molto sul rilancio dell’energia atomica, inserito in un più ampio contesto che prevedeva la ridefinizione di un nuovo piano energetico nazionale in modo da porre rimedio alla particolare vulnerabilità energetica del Paese, costituita dalla dipendenza dal petrolio e dal gas: non solo nucleare, con la stima che per ridurre del cinque per cento il costo dell’energia serviva realizzare almeno cinque nuove centrali, ma anche termovalorizzatori per la produzione di energia ottimizzando la gestione del ciclo dei rifiuti. Buoni propositi rimasti però nel cassetto.

 

 

Sono passati vent’anni, e nulla è cambiato: è di ieri, ad esempio, l’allarme sul fatto che fra tre anni le discariche dei rifiuti in Italia saranno strapiene e che occorreranno quindi almeno sei termovalorizzatori per recuperare il gap con l’Unione europea sull’energia degli scarti. Bisogna avere il coraggio di voltare pagina, prendendo atto che l’uscita dal nucleare ha fortemente penalizzato in un quarto di secolo l’indipendenza energetica italiana, e ora rinunciare alla ricerca delle nuove tecnologie sottomettendosi alla narrazione politicamente corretta di quei circoli che Cingolani ha bollato come «ambientalisti radical-chic» rischia di farci perdere in futuro competitività e margini di sviluppo. È giusto interrogarsi sui rischi del nucleare e non dimenticare Chernobyl e Fukushima, anche se quei disastri sono stati causati da centrali di vecchia generazione, ma è indubbio che l’Ue non sarà in grado di raggiungere i suoi obiettivi climatici tagliando fuori l’energia nucleare, e la battaglia politica che si sta riproponendo in Italia non potrà prescindere da questo ineludibile dato di fatto.

 

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