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In fumo i soldi al Garante della Privacy. Draghi sventa il blitz per il maxi-aumento degli stipendi

Fosca Bincher
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Mario Draghi non è cascato nel trappolone che una manina gli aveva servito con la norma sui maxi aumenti di stipendio ai membri e ai dipendenti dell'ufficio del Garante della protezione dei dati personali. L'articolo 10 che faceva lievitare senza alcuna giustificazione le buste paga di quella Authority è stato tagliato dal decreto legge preparato dal ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibile guidato da Enrico Giovannini.

 

Quando è arrivata la prima bozza del decreto legge a palazzo Chigi è stato lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, Roberto Garofoli a scorrerla e capire la polpetta avvelenata dicendo subito “Via quell'articolo! Non esiste”. Ma qualcuno evidentemente aveva fatto orecchie da mercante e al turno successivo, nella bozza di decreto legge del 24 agosto scorso che Il Tempo ha avuto in mano, quella pioggia di oro pubblico per meno di 200 fortunati, è con grande sorpresa riapparsa nel testo. Per finire definitivamente ora fra le fiamme o in un cestino della spazzatura. Ieri ha ufficializzato l'archiviazione di ogni ambizione presente e futura della autorità guidata dal professore Pasquale Stanzione (un cognome che ora sembra davvero un programma) la stessa presidenza del Consiglio dei ministri che ha voluto fare sapere l'indignazione del premier attraverso un breve comunicato. “Le notizie di stampa”, si spiegava, “riguardanti presunti aumenti di stipendio per i vertici e i dipendenti dell’Autorità del Garante della privacy fanno riferimento a bozze di provvedimenti mai presi in considerazione”. Tono che non lascia aperta le porta a nessun tipo di ripensamento, e i quasi 5 milioni di euro inizialmente stanziati per l'operazione maxi- aumento di stipendio alla privacy prenderanno ora altre direzioni. 

 

Resta ora da capire quale manina ha infilato e ostinatamente provato a reinserire quell'articolo 10 che avrebbe fatto infuriare mezzo mondo. Sicuramente il testo proviene dallo stesso ufficio del Garante a cui la bozza attribuisce la paternità dell'articolo 10: evidentemente era alto il pressing su Stanzione (il solo a non avere vantaggi personali con la norma) degli altri tre componenti del collegio (Ginevra Cerrina Feroni, Agostino Ghiglia e Guido Scorza) per essere pagati come lui: 240 mila euro e non come ora 160 mila.

 

Ed è probabile che i dipendenti della privacy da tempo si lamentassero della norma che fissava i loro stipendi all'80% di quelli dei colleghi dell'Autorità di garanzia nelle comunicazioni, sentendosi magari lavoratori di serie B. Che tutti avessero l'ambizione di migliorare la propria vita non è uno scandalo, anche se chi sta al vertice dovrebbe avere più il senso della realtà e del momento storico. Il problema è invece capire come quella -chiamiamola così- rivendicazione sindacale abbia trovato tutela in quella manina che ha infilato tutto nel decreto sotto cui la prima firma sarebbe dovuto essere quella dell'ignaro Draghi.

Siccome a palazzo Chigi appena visto il testo ha provocato orticaria, le indagini puntano sugli uffici del ministero di Giovannini in cui prima è stata assemblata e poi trasmessa alla presidenza del Consiglio dei ministri quella bozza. Non geniale il braccio che sorreggeva quella manina, perché se già prima erano assai freddi i rapporti fra il Garante della privacy e il presidente del Consiglio che assai male aveva preso i loro verdetti sul green pass, ora sono davvero glaciale. E chissà che invece della pioggia d'oro su quelle buste paga ora non si abbattano le forbici della spending review...

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