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Purga rossa contro Claudio Durigon, la verità sulle accuse al leghista

Riccardo Mazzoni
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Non deve sorprendere la mobilitazione in atto per la cacciata di Durigon dal governo: basta una scivolata crassa sull’intitolazione di un giardino e i plotoni d’esecuzione della sinistra combattente non perdonano mai, forti di una Repubblica fondata – opportunamente, ovvio - sul paradigma antifascista ma che, dovendo concordare la Costituzione col Pci, non poté equipararlo a un paradigma altrettanto sacrosanto: quello anticomunista.

La storia, si sa, la scrivono i vincitori, e la nostra Costituzione è frutto di un compromesso che fu necessario per evitare che la guerra civile scatenata dai partigiani nel Triangolo rosso si espandesse minando gli equilibri democratici già fragili perché sotto il ricatto del maggior partito comunista d’Occidente. Per cui ancora oggi non ci dobbiamo meravigliarci se via Stalin, via Lenin, via Tito e via Togliatti sfuggono rigorosamente alla Cancel culture del politicamente corretto, se l’indignazione vale solo per la storia della destra, e se ai partiti che la rappresentano oggi viene quotidianamente chiesta una patente di democrazia che solo la sinistra è legittimata a concedere in nome, appunto, dell’antifascismo.

A questo proposito, nel florilegio di j’accuse contro la Lega c’è un commento che meglio degli altri riassume e spiega il vizio atavico che accomuna le anime sparse della sinistra italiana. Il senso è questo: Giorgia Meloni, per non dire come la pensa, cerca di sfuggire alle polemiche puntando il dito contro chi cerca di trascinarla in un passato superato, ma Salvini, per difendere Durigon, ha fatto ancora peggio, rifugiandosi nel luogo comune secondo cui fascismo e comunismo sono sconfitti dalla storia, e rendendosi così responsabile, udite udite, di una “stolta equiparazione delle ideologie”.

Il messaggio è più che esplicito: equiparare fascismo e comunismo è un sacrilegio e una bestemmia storica. Non è certo questa la sede per fare il bilancio delle catastrofi politiche, sociali e umanitarie causate dai totalitarismi del Novecento: il secolo delle ideologie è finito da un pezzo, ma l’intellighenzia italiana resta aggrappata al totem dell'egemonia di sinistra, e questo è il paradosso di una Repubblica a maggioranza da sempre moderata, ma che continua ad essere eterodiretta da modelli e riferimenti valoriali di sinistra, alimentati da una minoranza organizzata che ha sapientemente occupato tutte le casematte della cultura oltre che gli apparati intermedi, a partire dalle centrali di elaborazione di modelli sociali o didattici come la scuola, l'università, i mass media e il mondo dello spettacolo.

Più di mezzo secolo dopo, i cascami del Sessantotto su cultura e scuola restano dunque fortissimi, grazie al "dirigismo culturale" che ha perpetuato oltre il Duemila lo sperimentato metodo dell’egemonia gramsciana. Nella Prima Repubblica il Pci era riuscito a coalizzare intorno a sé gran parte dell'intellighenzia culturale italiana puntando tutto sulla mistica antifascista, praticando la falsa equazione antifascismo uguale libertà, e Togliatti fu abilissimo a imbarcare in questa operazione anche intellettuali che uscivano proprio dall'esperienza fascista, a cui garantì posizioni di prestigio ammettendoli nell’empireo del progresso e della purezza ideologica, con la certezza di stare dalla parte giusta.

Un retaggio che condiziona ancora oggi non solo i premi letterari, ma soprattutto troppi libri scolastici in cui la storia del secolo breve propinata ai ragazzi, a partire dalla Resistenza, è piena di omissioni ideologiche, smascherate in parte solo grazie ai libri di Gianpaolo Pansa, che ebbe il coraggio di raccontare la verità sul sangue dei vinti. L’amplificazione del caso Durigon fino a trasformarlo in un caso nazionale rientra quindi a pieno titolo nella mistica sinistra di un paradigma storico declinato a senso unico.
 

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