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Chiuso il dossier della giustizia penale ora è il momento di cambiare il fisco: una svolta per l'Italia

Andrea Amata
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Archiviata la riforma del processo penale con l’approvazione corale della maggioranza «draghiana», adesso un altro dossier impegnativo giace sul tavolo del governo. Il premier Draghi è consapevole che gli impegni con la Commissione europea non possono essere disattesi onde evitare l’interruzione dei flussi finanziari del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Dopo aver incassato la riforma Cartabia, che ha provocato un esoso dispendio di energie nella mediazione con gli alleati più riottosi, all’orizzonte si staglia il provvedimento fiscale. Anch’esso non si sottrae al vincolo temporale indicato da Bruxelles per l’erogazione delle risorse rivolte alla ricostruzione di un Paese sconquassato dalla virulenza pandemica. Sul piatto ci sarebbero 18 miliardi che, tuttavia, non dovrebbero essere parcellizzati in molteplici rivoli, depotenziandone l’efficacia rispetto agli obiettivi prefigurati, ma concentrandone l’utilizzo al raggiungimento di un progetto tarato sulla riduzione della pressione fiscale. Smussare gli artigli rapaci del fisco significa immettere maggiori risorse nelle tasche dei lavoratori con l’effetto economico di aumentare i consumi, attivando un processo virtuoso di rimbalzo positivo sul gettito fiscale. Perché all’aumento dei consumi corrisponde un incremento dell’introito fiscale attraverso l’Iva.

 

 

 

La pressione e il cuneo fiscale ci pongono ai vertici delle classifiche nell’ambito dell'eurozona, pertanto per migliorare la vivibilità economica delle imprese nel nostro contesto occorre intervenire sulle aliquote in modo permanente, agendo sugli sprechi della spesa pubblica e sull'evasione fiscale per ricavare adeguate e strutturali coperture finanziare. La flat tax, l’aliquota piatta al 15%, che si identifica nelle linee programmatiche del centrodestra, nel contesto politico attuale rappresenta un obiettivo utopistico, pertanto sarebbe superflua ogni energia spesa nel rivendicarne l’attuazione. La si può immaginare in una configurazione di governo fra culture politiche omogenee, ma la sua impraticabilità contingente non dovrebbe in ogni modo eludere la necessità di alleggerire il peso asfissiante dell’imposizione fiscale. Il «vampirismo» fiscale riverbera negativamente sulle strategie economiche delle imprese, inibendone gli investimenti e di conseguenza infierendo sull’occupazione. Anche la Corte dei Conti si è espressa sul tema sostenendo che: «L’Italia ha una pressione fiscale difficilmente tollerabile».

 

 

Quando si parla di riforma fiscale non ci si riferisce solo ai numeri che ne compongono la grandezza, essendo fondamentale la dimensione qualitativa del sistema fiscale italiano che si distingue per essere il più disarticolato e complesso al mondo. Il nostro livello di complessità ci attesta al terzo posto in assoluto, preceduti solo dal Brasile e dalla Turchia. Gli adempimenti fiscali impegnano un numero medio di ore pari a 240, contro una media europea di 160, confermando la tortuosità di un sistema che penalizza la competitività del tessuto produttivo. Se al cosiddetto Total Tax Rate (aliquota fiscale totale) che ha raggiunto il 64%, un valore opprimente e provante la voracità del fisco italiano, associamo la farraginosità della struttura fiscale ricaviamo le ragioni che inducono molte imprese a delocalizzare le produzioni in realtà fiscalmente più ospitali. Il premier Draghi, conoscendo le zavorre che appesantiscono il cammino verso la ripresa, agisca per liberare l’economia dal fardello di una tassazione sproporzionata sia nella quantità che nella qualità.

 

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