Il magistrato Albamonte: "Il guaio è il numero dei processi. E la riforma Cartabia riesce a peggiorarlo"
«Il problema dei processi non è la carenza di personale. O, almeno, non solo. Ma soprattutto l’eccesso di procedimenti. Da questo punto di vista la riforma Cartabia, aprendo la strada all’improcedibilità, moltiplicherà i ricorsi in appello. E peggiorerà le cose». Eugenio Albamonte, sostituto procuratore di Roma ed ex presidente Anm, è nella nutrita schiera di magistrati critici nei confronti della riforma. Anche se, a differenza di altri, usa toni più diplomatici: «Preferisco parlare di argomenti anziché usare slogan. Altrimenti si dice che non ci va bene nulla».
Di certo non vi va bene la riforma Cartabia.
«L’ultima stesura, col prolungamento dei tempi per arrivare all’improcedibilità, va senz’altro meglio. Due anni per l’Appello era un limite improponibile. Peccato che questo regime transitorio finisca nel 2024. E alla fine le cose andranno peggio».
Perché?
«Perché la possibile improcedibilità rappresenterà per tutti gli imputati uno sprone ad andare in appello. I tribunali si intaseranno e i tempi si allungheranno».
Si poteva fare meglio?
«Bastava ispirarsi al lavoro della Commissione Lattanzi e introdurre la cosiddetta "critica vincolata". Stabilire prima, cioè, per quali reati si può ricorrere in appello e per quali no. Ma l’avvocatura non voleva...».
Arriveranno forze fresche nei tribunali.
«Bene. Per anni si è tagliato sistematicamente il personale amministrativo. Invece bisogna assumere magistrati, far tenere i concorsi, così come è cruciale puntare sulla tecnologia. Ma conta poco, se non si agirà sul numero dei reati».
Depenalizzazioni?
«Le sembra normale celebrare processi per fatti che potrebbero essere semplici illeciti amministrativi? Ha senso andare in Aula per l’immigrato che vende una borsa contraffatta? O per il tifoso già colpito dal Daspo?».
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Le depenalizzazioni sono divisive.
«Anche i partiti che parlano di sicurezza dovrebbero capire che questa la si ottiene presidiando il territorio con le forze dell’ordine, non intasando i tribunali».
Per lo meno alcuni reati sono stati sottratti all’improcedibilità.
«Il punto è che così il Parlamento ha già di fatto stabilito una priorità dei crimini da perseguire. Ci sono processi che andranno celebrati e conclusi in ogni modo e altri che, invece, si celebreranno se si farà in tempo, altrimenti pazienza. E tra questi i reati contro la Pa, che sono rimasti figli di nessuno. È già questo un modo della politica per condizionare l’azione penale, con problemi di compatibilità con la Costituzione».
La magistratura dà l’impressione di rifiutare ogni cambiamento.
«È falso. La prescrizione di Orlando ci andava bene, così come la riforma Bonafede, se fossero arrivati i correttivi. Il punto è che alla fine noi siamo quelli che dovranno trasformare queste norme in processi. E quando si verificheranno inefficienze la colpa sarà nostra, non di chi ha scritto le regole. Ne siamo stufi».
Al punto di scendere in piazza?
«Dobbiamo offrire il nostro contributo nelle sedi istituzionali preposte. Non vedo agitazioni all’orizzonte, non è una situazione di tale gravità».
In realtà Gratteri ha parlato di «riforma peggiore della storia».
«Io preferisco offrire argomenti per eventuali correttivi. Parlare per slogan rischia di farci passare per davvero per quelli che non vogliono cambiare nulla».
Allora c’è qualche parte della riforma che salva?
«Una, sempre ripresa dal lavoro della Commissione Lattanzi. Quella in cui si stabilisce che in alcuni casi le sanzioni alternative al carcere possono essere decise già dal giudice di primo grado. In primis perché può rappresentare davvero un deterrente contro il ricorso in appello. In secondo luogo, per il messaggio: il carcere non è la risposta a tutto, ogni reato va giudicato per la sua gravità».
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