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Nessuno usi Falcone e Borsellino per attaccare la riforma Cartabia

Riccardo Mazzoni
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«Falcone e Borsellino si saranno girati tre volte nella tomba a sentire questo tipo di riforma. Conoscendo l’integrità di questi grandi uomini morti in nome di un’idea, penso che non bisognava nemmeno avvicinarsi alla tomba, alla lapide di questi grandi uomini nel momento in cui si produce un sistema di norme che favorirà i faccendieri e i mafiosi». Parole definitive e musica da requiem della giustizia pronunciate in un’intervista dal procuratore Gratteri, il quale ha ovviamente tutto il diritto di esprimere i suoi dubbi sulla riforma Cartabia, ma farsi scudo di due simboli come Falcone e Borsellino, pretendendo di fornire un’interpretazione autentica del loro pensiero, significa trasformare quelle critiche in mera propaganda. Perché la loro concezione della giustizia è stata lontanissima dalla grancassa mediatica con cui il procuratore di Catanzaro ama accompagnare le sue inchieste, anzi le sue maxi-inchieste, compresa l’ultima, denominata «Rinascita Scott», ancora alla fase iniziale e i cui esiti sono tutti da definire, col rischio eventuale di finire come le precedenti, ossia con un ridimensionamento totale delle accuse e con un numero di condannati inversamente proporzionale al clamore suscitato. Come, per fare un solo esempio, quella dal suggestivo titolo «Marine», con 125 arrestati e sole otto condanne, di cui cinque per reati lievi.

 

 

La ministra Cartabia, finita nel mirino di alcune punte di diamante della magistratura, con la sponda scontata del Csm, per aver presentato una riforma che rimette in linea la giustizia col dettato costituzionale, forse dovrebbe regalare a Gratteri, come ha già fatto con l’ex ministro Bonafede, il libro che contiene la tesi di laurea di Falcone, che in tutta la sua carriera non smarrì mai la bussola del garantismo, anche quando nel 1983 fu chiamato a guidare il pool antimafia, il cui lavoro sarebbe approdato nel maxiprocesso alla mafia dell’87 che si concluse con 360 condanne, a dimostrazione della solidità dell’impianto accusatorio di un’inchiesta che per la prima volta riuscì a fare luce su un mondo di cui si conosceva l’esistenza, ma di cui non erano note la struttura, l’estensione, le ramificazioni e la dimensione internazionale. Falcone si pose per primo il problema della compatibilità delle maxi-inchieste con il processo di tipo accusatorio, avendo ben presente che il nuovo rito scoraggiava il ricorso ai maxiprocessi. Aveva insomma intuito che un uso eccessivo del reato associativo, come quello previsto dal 416 bis, «può generare fenomeni di abnorme gigantismo processuale e rischia di appiattire la valutazione delle responsabilità individuali».

 

 

Nel libro del 1982 «Tecniche di indagine in materia di mafia», Falcone aveva già tracciato il solco di una cultura processuale di tipo garantistico, «che escludeva scorciatoie probatorie a carattere sociologico». Una linea da cui non si discostò mai, neanche quando i professionisti dell’antimafia lo accusarono di tenere nascoste in un cassetto le prove contro il «terzo livello» politico che avrebbe eterodiretto la cupola mafiosa. Un’entità fantomatica la cui esistenza è sempre stata negata sia da Falcone che da Borsellino, i quali hanno inferto colpi micidiali a Cosa Nostra con un rigore investigativo sconosciuto a troppi magistrati di prima linea che hanno costruito teoremi processuali indimostrabili. E dunque Gratteri, per demolire la riforma Cartabia, ha scelto proprio gli esempi sbagliati. Perché la loro idea di giustizia e il loro stile di indagine sono stati agli antipodi del metodo Gratteri.

 

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