riforma cartabia
Giustizia, con Draghi Conte ha già perso
Il primo incontro tra Draghi e Conte dopo il passaggio della campanella a febbraio è ritenuto cruciale soprattutto per le sorti di una riforma basilare come quella della giustizia: in ballo infatti ci sono le risorse europee, ma anche la stabilità del governo.
L’ex avvocato del popolo, leader in pectore dei Cinque Stelle, stavolta varcherà il portone di Palazzo Chigi nelle vesti di avvocato del suo primo sponsor politico, Bonafede, e soprattutto della sua furia giacobina tradotta in legge nel cosiddetto Spazzacorrotti con la prescrizione senza fine. Ma riavvolgendo il nastro della politica fino a gennaio, Conte dovrebbe ricordare che il suo secondo governo, dopo essersi salvato per il rotto della cuffia grazie al voto in extremis di Ciampolillo, cadde di fatto proprio sulla giustizia, perché neanche i transfughi dal centrodestra pronti ad appoggiare il Conte due bis se la sentirono di garantire il sì alla Relazione annuale di Bonafede.
In sostanza: in Parlamento non c’era più, già allora, una maggioranza giustizialista, e a maggior ragione cercare oggi di stravolgere la riforma Cartabia per un improbabile ritorno al passato significherebbe fare un salto nel buio col rischio di spaccare il Movimento tra governisti e pasdaran identitari. Due fazioni che hanno però una preoccupazione comune: quella di non mettere a rischio gli equilibri di governo per non anticipare le urne al 2022.
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La libertà di azione che Conte ha già rivendicato nei confronti di Draghi non potrà dunque mai superare certi limiti, pena la rivolta del corpaccione parlamentare grillino che punta senza se e senza ma a terminare la legislatura. La delegazione ministeriale che ha dato via libera agli emendamenti del governo sulla giustizia questo punto lo hanno avuto ben chiaro, anche perché se si aprisse davvero il vaso di Pandora degli emendamenti non concordati, il rischio di veder prevalere le modifiche garantiste sarebbe altissimo, e la prima prova di forza del nuovo capo politico si trasformerebbe così in un clamoroso autogol. Anche perché rispetto al testo della Commissione Lattanzi il compromesso raggiunto nella maggioranza ha apportato alcune correzioni non certo marginali, dall’inappellabilità dei pm in caso di assoluzione in primo grado alla priorità dei reati da perseguire non decisa più dal Parlamento.
Difficile dunque che Draghi possa fare ulteriori passi indietro, soprattutto sulla riforma della prescrizione: l’obiettivo di velocizzare i processi e di non scaricare più sulla vita dei cittadini le inefficienze della giustizia è infatti irrinunciabile non solo perché ce lo chiede l’Europa, ma soprattutto perché rimette il nostro sistema giudiziario sui binari della Costituzione. Sostenere, come ha fatto l’Anm, che la nuova disciplina non velocizzerà i tempi, e che non può essere applicata a tutti i processi, è quindi solo l’ennesimo arroccamento di chi ha sempre avversato ogni tipo di riforma.
Peraltro, non la pensa così nemmeno una parte della magistratura, tanto che un personaggio autorevole come l’ex procuratore Spataro si è detto favorevole all’improcedibilità perché la grande maggioranza delle Corti d’appello è già in grado di chiudere gli appelli nei tempi previsti dalla riforma. Anche l’avvocato Coppi, il numero uno dei penalisti italiani, che si era inizialmente espresso contro la riforma, ora l’ha invece promossa a «dolorosa necessità». Conte o non Conte, dunque, stavolta indietro non si può tornare.