rotture e scenari futuri
Il centrodestra non c’è, da anni è una lite continua. Matteo Salvini e Giorgia Meloni non vanno d'accordo su nulla
Proviamo ad acchiappare il subbuglio che attraversa il centrodestra in un’altra chiave di lettura, che possiamo definire «evolutiva». Come se la lite continua fra i partiti, più che la difficoltà nel trovare un amalgama sui vari temi, ci conducesse verso qualcosa di diverso. E allora partiamo dall’inizio di tutto, dalla scorsa legislatura. È da lì che, in sostanza, un centrodestra vero e proprio come lo abbiamo inteso per circa una decina d’anni (ossia con Forza Italia, Lega e un partito erede del Msi, prima An e oggi Fratelli d’Italia), dal 2001 al 2011, ha sempre faticato a realizzarsi. La scorsa legislatura vide alcune spaccature importanti ed occasioni perse, le seconde conseguenza della prima. È il caso di alcune corse per le elezioni regionali (Puglia e Marche 2015 ne sono un esempio). E maggiormente Roma Capitale 2016, dove il centrodestra, franata la disponibilità unitaria su Guido Bertolaso, si presentò diviso, con Alfio Marchini (Forza Italia) e con Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia e Lega), vanificando così una sfida che avrebbe potuto essere abbordabile. Esito identico, e dinamica analoga, per la corsa alla Regione Lazio nel 2018. Stefano Parisi fu candidato in zona Cesarini, dopo un’infinita telenovela di nomi messi sul tritacarne e poi bruciati (sembra quasi una fotocopia di quanto accaduto in questi mesi per le principali città, soprattutto Milano), e con una quota dell’area moderata che peraltro decise di appoggiare Sergio Pirozzi. Risultato? Zingaretti confermato con strettissimo margine.
Al di là delle grane locali, però, anche l’assetto nazionale si rivelò piuttosto ballerino, con Forza Italia spesso proiettata a sposare progetti trasversali. Prima nell’ottica di governo, con l’esecutivo Letta, appoggiato per qualche mese da Berlusconi, che poi ritirò il suo sostegno. Poi nel progetto di cambiare l’architettura del Paese, con il Patto del Nazareno, sancito dal leader azzurro e Matteo Renzi, naufragato quando l’ex sindaco di Firenze, nel frattempo divenuto Presidente del Consiglio, non coinvolse il Cavaliere nella scelta del Presidente della Repubblica. In quegli anni, Lega e Fratelli d’Italia erano più sinergici tra di loro, nell’ottica di un polo identitario-sovranista. Una manifestazione a Bologna nel 2015, con Berlusconi, Salvini e Meloni sul palco non cambiò lo scenario complessivo di un assetto difficoltoso a trovarsi, che tuttavia sembrò raggiunto alla fine del quinquennio, quando dal referendum 2016 (Forza Italia, dopo lunga riflessione, converse sul no con gli altri due alleati), in poi i pilastri del centrodestra si trovarono sulla stessa linea.
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E si arriva a questa legislatura. Dopo la deviazione della Lega nel governo populista con il Movimento 5 Stelle, il Conte 2 vede riproporsi il bipolarismo classico centrodestra-centrosinistra. E la coalizione moderata che, prima della pandemia, sigla la propria ritrovata coesione in Piazza San Giovanni a ottobre 2019. Ma il Covid si rivela anche un soggetto politico, in grado di cambiare la geografia dei singoli Paesi. Qui risiede la nascita del governo Draghi, e l’aggancio tra Salvini e Berlusconi, con Giorgia Meloni all’opposizione. Una foto tra il leader della Lega e il presidente di Forza Italia, scattata nella dimora romana di quest’ultimo nei giorni in cui fervevano gli incontri per la formazione del governo Draghi, era l’istantanea di quello che di lì ai mesi successivi sarebbe diventato un percorso politico. Difficoltoso e accidentato, ma comunque condotto con una certa volontà. Salvini propone la federazione tra Lega e Forza Italia. Berlusconi rilancia sul partito unico, ipotesi non accolta dall’alleato, stante anche il precedente del naufragio del Pdl. Giorgia Meloni, per quanto formalmente invitata al progetto, declina. Con una certa logica: sarebbe alquanto arduo partecipare ad una nuova fase costituente dell’area quando una parte dei componenti sta all’opposizione ed un’altra sta in maggioranza.
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Al di là della mancata condivisione di una meta unitaria, si affollano i punti di discordanza tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni. A parte la firma di entrambi, assieme ad altri partiti dell’area sovranista e conservatrice, e la contrarietà identica sul green pass, per il resto è tutta una divergenza e un distinguo. La Rai, certo, ma anche i referendum sulla giustizia di Lega Radicali, dove Giorgia Meloni appoggia 4 quesiti su 6. Per non parlare, poi, delle amministrative. Se era sembrata faticosa la convergenza sul ticket Michetti-Matone per Roma, in realtà molto più arduo è stato l’accordo per Bernardo a Milano e Maresca a Napoli, su Bologna ancora non è stata trovata la quadra mentre si rischia la corsa solitaria di Fratelli d’Italia in Calabria, ritirando l’appoggio all’azzurro Roberto Occhiuto. Tutto questo, nel frattempo, apre ad un nuovo posizionamento. Con l’aggancio sempre più stretto Lega-Forza Italia, Salvini si affaccia fisiologicamente all’area di centro e ci sono alcuni segnali a suggerirlo. La promozione intensa della sottoscrizione per i quesiti referendari molto garantisti sulla giustizia; un messaggio politico molto incentrato sulle imprese e le tasse; i toni sull’immigrazione meno muscolari che in passato; il racconto rassicurante rispetto al governo Draghi, di cui si pone come stabilizzatore. Non è forse un caso che, in quest’ottica, certe sfumature analoghe con Matteo Renzi notino. Sul ddl Zan, senz’altro, ma anche sulla giustizia (entrambi similmente a Berlusconi ma molto meno sul lato quantitativo, hanno ricevuto «attenzioni» dai pm), sulle tasse. Rimangono tuttavia delle distanze, come sulle politiche migratorie. Ma è indubbio che il cantiere del «Centrodestra di governo», nella cui area è compreso anche il neonato «Coraggio Italia» di Toti-Brugnaro, può fornire un terreno di dialogo per chi ha comunicazioni interrotte, e forse irreversibili, con l’asse Pd-5 Stelle. È tutto molto fluido e difficile, ma l’elezione del Presidente della Repubblica potrà fornire nuovi elementi.