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Pd, Enrico Letta sente odore di sfratto. Dal caos in Calabria alle sfide fratricide di Napoli e Roma

Carlo Solimene
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Come la tela di Penelope. Solo che a cucirla di giorno e a sfilarla di notte non è la stessa persona. Il «sarto» Enrico Letta ce la mette davvero tutta, ma ogni volta che nel complicatissimo quadro delle candidature alle amministrative riesce a mettere un punto, succede qualcosa che rimette tutto in discussione. L’ultimo terremoto si è scatenato in Calabria, dove la candidata individuata da Pd e Cinquestelle per la poltrona di governatore, Maria Antonietta Ventura, ha annunciato il proprio ritiro dalla corsa a causa dell’interdittiva antimafia che ha colpito una delle aziende riconducibili alla galassia imprenditoriale della propria famiglia. Così il segretario del Pd deve ripartire da capo nella soluzione di un rebus che aveva già visto cadere la candidatura di Nicola Irto - lamentatosi dello scarso sostegno del segretario - e che, soprattutto, vede la concorrenza a sinistra pure del sindaco uscente di Napoli Luigi De Magistris, ansioso di riciclarsi nella regione che lo vide magistrato di grido. Proprio De Magistris, visti i piddini e i pentastellati in difficoltà, ha chiesto di unire le forze sotto la sua guida. Ma dal Nazareno hanno rigettato l’invito. Si riparte da zero, quindi, senza contare che in campo ci sarà anche un candidato renziano, Ernesto Magorno. La Calabria, peraltro, era già considerata una sfida proibitiva.

 

 

Il problema, per Letta, è che la faccenda si è complicata assai anche nei territori dove i Democratici potevano puntare alla vittoria. Anzi, dovevano. Perché un segretario di fatto «calato dall’alto» dal suo predecessore ha bisogno come il pane di una vittoria elettorale per vantare una legittimazione popolare. Altrimenti sarebbe già il momento dell’avviso di strappo. E alcune battaglie eccessivamente «di bandiera» delle ultime settimane (dal ddl Zan allo Ius Soli passando per la tassa di successione) hanno già fatto saltare la tregua con la corrente riformista. Peccato che al momento di vittorie certe non ce ne siano. Quello messo meglio è il sindaco uscente di Milano Beppe Sala, che al partito non è neanche iscritto. Nelle altre partite che contano è il caos. A Roma, per dire, i Dem hanno accolto senza drammi gli ultimi sondaggi che danno Virginia Raggi al ballottaggio ai danni di Roberto Gualtieri. «La differenza è minima - chiosano alcuni dirigenti - e quando ci saranno in campo le liste il quadro si ribalterà». Ma la realtà è che nessuno si aspettava una Raggi così competitiva al cospetto di un Gualtieri così debole. «Colpa» anche del consenso ottenuto da Carlo Calenda, vero e proprio «disturbatore» del candidato del Pd con il quale Letta non è riuscito (o non ha voluto) a trovare un accordo.

 

 

Un disturbatore c’è anche a Napoli, dove Antonio Bassolino non ha fatto alcun passo indietro nonostante la discesa in campo di Gaetano Manfredi e, senza accordo in Calabria con De Magistris, resterà in corsa pure la «protetta» del sindaco uscente Alessandra Clemente. Più che gli attuali avversari, però, Letta teme le fibrillazioni nel campo grillino, con gli esponenti locali che non hanno digerito l’accordo con i Dem e - se Grillo e Conte non dovessero firmare l’armistizio - farebbero saltare l’intesa firmata da Giuseppi. Non va meglio a Torino, dove le primarie flop (solo 13mila votanti) hanno incoronato Stefano Lo Russo, il candidato meno digeribile per i grillini al ballottaggio. Tanto che i vertici pentastellati sarebbero in pressing sull’uscente Chiara Appendino per farle cambiare idea e rendere ancora più difficile la partita Dem in un territorio che li ha già visti soccombere alle ultime regionali. Di fatto, allo stato attuale i Dem potrebbero intestarsi solo l’eventuale vittoria a Bologna di Matteo Lepore. Ma tenere una storica roccaforte rossa non basterebbe certo a salvare la poltrona del segretario. Che, forse, sta già rimpiangendo i tempi del dolce esilio parigino.

 

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