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Sussidi e bonus, in Italia è meglio non lavorare

Filippo Caleri
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Tra sussidi e bonus siamo diventati un Paese dove lavorare non conviene più. Inutile affaticarsi. Basta metter su famiglia, comprare un bel divano e attendere. Sì perché grazie alla fortunata combinazione del reddito di cittadinanza con l’ultimo sussidio fresco di nascita come l’assegno unico, interi nuclei familiari possono ambire a mettere in cassa ogni mese ben 1.634 euro. Esentasse si intende, e dunque netti.

Tra sussidi e bonus siamo diventati un Paese dove lavorare non conviene più. Inutile affaticarsi. Basta metter su famiglia, comprare un bel divano e attendere. Sì perché grazie alla fortunata combinazione del reddito di cittadinanza con l’ultimo sussidio fresco di nascita come l’assegno unico, interi nuclei familiari possono ambire a mettere in cassa ogni mese ben 1.634 euro. 
Esentasse si intende, e dunque netti. La stessa cifra alla quale può ambire un impiegato di medio livello, monoreddito, con moglie e tre figli minori conviventi. Che però per almeno 11 mesi all’anno deve alzarsi dal letto per essere in ufficio alle nove, sudare, subire le angherie dei capi, le chiacchiere dei colleghi, e passare il viaggio di andata e ritorno il più delle volte su mezzi pubblici modello carro bestiame. Insomma per come si è messa a molti fortunati dipendenti converrebbe quasi smettere di lavorare, rilassarsi sul sofà di cassa e attendere ogni mese l’arrivo degli assegni. 
Non è uno scherzo. Basta aprire il sito dell’Inps relativo al reddito di cittadinanza e fare due conti. Il caso di specie è quello di una famiglia con due genitori e tre figli minori. Attraverso l’applicazione di una serie di coefficienti l’assegno di cittadinanza consente al padre di ottenere una somma pari a 6mila euro l’anno. In soldoni 500 euro al mese. Con il coniuge a carico il bonus (applicando la percentuale del 40% sui 6mila euro) si arricchisce di altri 200 euro al mese. E si arriva così a 700 euro. Sempre sulla base del nucleo in oggetto anche i 3 minori fanno incrementare il budget di un più 20% per ognuno di loro. E siccome il parametro di riferimento sono sempre i 6mila euro all’anno del papà, ogni bimbo sotto i 18 anni fa aggiungere un contributo di 100 euro. Dunque nel nostro caso si arriva a 300 euro. Questo significa che ogni mese in casa entrano 1000 euro netti ai quali si aggiunge un altro bonus se, la stessa famiglia, abita in affitto. In questo caso ai mille si aggiunge un bonus mensile di 280 euro. Fin qui nulla di nuovo trattandosi della misura bandiera del M5s e che portò i grillini all’atto della sua approvazione a urlare dal balcone di Palazzo Chigi di aver sconfitto la povertà. Ma dal prossimo primo luglio le cose per chi sta a casa cambieranno anche in meglio. Parte, infatti l’assegno unico, ovvero l’erogazione di una cifra in base al numero di figli conviventi per ora solo ad autonomi e disoccupati (quelli che in questo momento godono del reddito di cittadinanza). Così l’introito lieviterà ancora. Per sapere di quanto, basta scorrere le tabelle allegate al decreto legge n. 79 dello scorso 8 giugno che fissa requisiti e beneficiari della misura, e farsi due conti. 

Con un Isee sotto i 7 mila euro che è la soglia di reddituale e patrimoniale minima nella quale rientra la stragrande maggioranza dei percettori di reddito di cittadinanza la somma aggiuntiva che spetta per ciascun figlio è di 167,5 euro al mese fino a due pargoli, e 217 dai tre in su. Dunque per i tre minori dell’esempio, chi gode già del bonus di cittadinanza ottiene 653,4 euro in più. Attenzione però. L’assegno unico per i figli assorbe il contributo per la prole inserita nel reddito sociale. Così papà e mamma ritornano a quota 700 euro (500 euro per il capofamiglia e 200 per la moglie) ma a questo importo, dal primo giorno del prossimo mese, si dovrà aggiungere i 654,3 euro che portano l’incasso a 1354,3 euro. Sempre netti. Se poi, come chiarito nel nostro esempio, si aggiunge anche il contributo per l’affitto si tocca quota 1.634,3 euro al mese. Lo stesso calcolo si può fare anche con un nucleo più piccolo, la classica famiglia con due genitori e due minori, basta ripetere lo stesso percorso per quantificare la cifra: 1.315 euro (500 il padre, 200 la madre, 335 i due minori e 280 per l’affitto). Che equivale allo stipendio netto di un operaio con qualche anno di anzianità. Sono dati oggettivi che spiegano la naturale e legittima ritrosia di molti italiani nel mettersi alla ricerca di un impiego, salvo che lo trovino loro i navigator (anche se questa è un’altra storia). E che fanno dannare gli imprenditori che non riescono più a riempire gli organici nelle loro aziende. Difficilmente si esce dal cul de sac nel quale si è entrati. Anche perché secondo gli ultimi dati a percepire il reddito di cittadinanza, al quale ora si aggiungerà l’assegno unico, sono i cittadini del Meridione dove la carenza di lavoro è endemica e dove il peso relativo delle cifre erogate è molto più alto rispetto alle grandi città e al Nord Italia. Basta prendere il riferimento del contributo per l’affitto, mentre in una metropoli come Roma o Milano, i 280 euro rappresentano una piccola parte del canone medio, nelle città e nei paesi del Sud per un’abitazione in una zona periferica potrebbero essere quasi sufficienti se non bastevoli. Qualcosa comunque non torna. Va bene battere la povertà soprattutto in aree arretrate ma il sistema così come ora strutturato rischia di creare una nuova classe di rentier con ben poche motivazioni a cercare un lavoro. Perché sbattersi e bussare alla porta delle imprese se si ottiene un reddito cospicuo senza fare nulla?

Ovvio che la scelta è solo politica. E ben venga uno strumento per contrastare la disuguaglianza e il rischio di cadere in povertà. Ma bisogna fare attenzione a non creare distorsioni. Sì perché come dimostrato dalla matematica il sussidio in alcuni casi supera lo stipendio di un dipendente medio. E a senso qualche cosa andrebbe registrata. Nessun intento punitivo ma sarebbe il caso che si aiutasse sia chi non lavora, sia chi un lavoro ce l’ha ma per effetto delle aliquote Irpef crescenti e della rigidità del calcolo dell’Isee, si trova in busta meno di quanto arriva a un nucleo familiare equivalente senza redditi da lavoro. Insomma socialismo va bene. Ma fessi, riferito a chi lavora, proprio no.
 

 

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