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Ius soli, tasse e legge Zan, perché Letta non ne azzecca una

Luigi Bisignani
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Caro direttore, nel Pd ci vuole ben altro che il cacciavite, usato come metafora nel titolo dell’ultima fatica letteraria di Enrico Letta; adesso manca solo che il segretario adotti il reprobo Giuseppe Conte, rimasto quasi senza partito e finanziamenti per farne uno nuovo, assieme a quattro grillini disperati, da Patuanelli alla Taverna, per dare l’ennesima martellata a sinistra. Tra coloro che gli hanno pagato il biglietto di sola andata da Parigi per metterlo alla guida del Partito Democratico, da Franceschini al trio Guerini-Lotti-Margiotta, e che oggi rimpiangono Nicola Zingaretti, si registra sempre più sconcerto rispetto all’incomprensibile linea politica dell’ex professore a Sciences-Po. Andreotti commenterebbe: «un comunista come Zingaretti portava il Pd verso il centro, mentre un cattolico Dc come Letta lo sposta sull’ultra sinistra». Cossiga, dal canto suo, lo giudicherebbe «un bravo ragazzo, anche se è un sussincu d’ischogliu», per le tante estati che trascorreva in Sardegna dalla nonna Elsa a Stazzu Capruleddu. Per Fanfani, invece, «uno di Pisa non può che far male e si capisce che non segue i consigli dello zio Gianni, un gigante tra i nani di oggi».
Tuttavia, forse fortunatamente, il segretario del Pd deve fare i conti con i vivi.

Dopo aver inanellato in pochi mesi una serie di autogol impressionanti, dagli sterili dibattiti su temi di cui pochi oggi sentivano il bisogno, come lo ius soli o il voto ai sedicenni, alle mere enunciazioni di principio, buttate lì e prive di soluzioni pratiche, come l’immigrazione no-limit, la tassa di successione, la cittadinanza a Zaki, fino al Ddl Zan che, in un colpo solo, ha fatto imbestialire, per i continui zig zag, Vaticano e mondo Lgbtq. Ma per chi sa interpretare i mal di pancia del Parlamento, i rulli di battaglia si cominciano a sentire e rischiano di creare, oltre allo tsunami grillino, più di un grattacapo anche all’irraggiungibile premier Mario Draghi. Soprattutto ora che, con il semestre bianco, non c’è più neppure il rischio dello scioglimento delle Camere e con il Governo che ora comincia persino ad andare sotto nelle Commissioni parlamentari: è successo pochi giorni fa al Senato, dove è stato sonoramente bocciato il parere sulla presidenza dell’autorità portuale di Ancona. Era un candidato proposto dal ministro Giovannini, che si sta dimostrando sempre di più un perfetto mix di presunzione e incompetenza. Ma dove il Governo rischia davvero di trovarsi in minoranza è sulle nomine Rai, che devono passare al vaglio del Parlamento, tanto che, saggiamente, Draghi sta pensando di rimandare la palla a settembre, proprio per evitare di sporcare con una bocciatura il suo spianato volo verso gli Dei. Anche per la sua ostinazione di mettere come Ad, anziché finalmente un interno, il solito manager amico griffato che non ne sa nulla e continuerebbe nel disastro perpetrato dai vari Campo Dall’Orto e Salini.

 

 

 

 

Ma sulla Rai, come al solito, nel Pd c’è guerra: il tandem Letta-Orlando vuole imporre nel Cda una propria favorita, Francesca Bria, che lo stesso Orlando aveva già piazzato in Cdp innovazione dopo le deludenti prestazioni a Barcellona come assessore al digitale. Contro di lei, un coro di proteste e non solo per essere stata coinvolta, con tanto di intercettazioni barricadiere e rapporti di polizia, durante il G8 di Genova, come ha ricordato Il Foglio, ma soprattutto per il suo ruolo negli anni di irriducibile «mediattivista» del sito Indymedia, nato «contro le televisioni di regime» (Rai compresa), per il quale ha firmato e diretto un documentario fortemente critico contro Israele. Peraltro, il sito de quo è ricordato anche per il fotomontaggio in cui Ratzinger era raffigurato in divisa delle SS con la scritta «papa nazista», che fece e fa inorridire il Vaticano pronto su questo ad alzare le barricate peggio che con il decreto Zan. E la Segreteria di Stato attraverso l’Ufficio per le Comunicazioni l’ha già sussurrato a Palazzo Chigi.

Tutti contro tutti, insomma: Orlando spiazzato a sinistra dal suo vecchio compagno di merende Provenzano, a cui ha tolto il posto da ministro e che ora guida la frangia più estrema del partito mettendolo in difficoltà come ministro del Lavoro, Dario Franceschini, invece, in costante rottura con Letta e sempre più pentito di non essere più il capo delegazione del Pd al Governo e che non smette di fare un pensierino al Quirinale, convinto com’è , beato lui, di riuscire alla fine a trovarsi gli appoggi giusti. Letta sa bene che è iniziata una battaglia che rischia di diventare incontrollabile ed è indeciso se andare alle urne dopo l’elezione del Presidente della Repubblica, per poter fare lui le liste, o giocarsi la roulette di un congresso che difficilmente potrà vincere perché il Nazareno è ormai un Vietnam. Col senno di poi, al contrario di Enrico di Navarra, per il nostro Enrico, «il Pd non valeva bene Parigi».

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