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Mario Draghi archivia Giuseppe Conte: in due giorni cancellata tutta la propaganda del predecessore

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Franco Bechis
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Un doppio colpo di spugna. Martedì a Cinecittà con la scenografica presentazione del sì europeo al Recovery Plan italiano a fianco di Ursula von der Leyen. Mercoledì alla Camera e al Senato parlando alla sua maggioranza e non solo del Consiglio europeo. In meno di 24 ore Mario Draghi ha definitivamente archiviato l'ombra e la propaganda di Giuseppe Conte, facendo cogliere la differenza abissale di stile e di contenuti rispetto all' uomo che in quel momento era ancora tutto preso da come sfilare il Movimento 5 stelle a quel Beppe Grillo che con troppa generosità glielo aveva affidato.

Avrà pianto - ed è successo davvero in aula - qualche vedova inconsolabile grillina, che si è lamentata del mancato riconoscimento da parte di Draghi degli inesistenti meriti del predecessore. Avrebbero dovuto invece battere le mani per non averlo citato nel solo passaggio del discorso di Draghi in cui meritava un posticino Conte per il motivo esattamente opposto: quello della totale assenza del premier italiano da ogni tavolo europeo dove si decideva di immigrazione. Con stile Draghi invece ha evitato di farlo, limitandosi a ricordare come l'ultimo premier italiano ad essersene occupato prima di questo consiglio europeo è stato Paolo Gentiloni.

Ma è stato soprattutto sul PNRR che si è marcata la distanza lunare fra Draghi e la propaganda da quattro soldi sparsa a larghe mani per lunghi mesi da Conte. A differenza del predecessore l'attuale premier parla di cose che conosce in profondità. Non sottovaluta affatto l'importanza dei  191,5 miliardi di finanziamenti europei assegnati all'Italia (68,9 a fondo perduto e 122,6 a prestito), ma non la esagera ben sapendo le difficoltà che ci si troverà davanti e le gravi debolezze del Paese di cui ha preso le redini, che si sono ingigantite nell'ultimo anno anche per una gestione dell'impatto economico dell'epidemia che in Italia è stata fra le peggiori al mondo.

Non è un caso se siamo oggi uno dei soli tre paesi fra i dodici i cui PNNR sono stati approvati dalla Ue a chiedere e pure integralmente la quota di prestiti prevista in quei programmi. Oltre all'Italia lo hanno fatto  in parte solo Grecia e Portogallo. Spagna, Francia, Germania e tutti gli altri hanno rinunciato a quella quota pure prevista nei programmi iniziali. Il motivo è semplice: le loro economie hanno retto meglio l'urto del Covid 19, e i loro spread sono restati assai bassi, rendendo più conveniente i tassi di indebitamento nazionali di quelli previsti dai prestiti europei.

Per l'Italia no: lo spread ancora ieri era 107,4 punti, superiore perfino a quello greco (100,10 punti), e si risparmiano almeno 4-5 miliardi annui chiedendo in prestito a Net generation Eu invece che ad emettere titoli di Stato per autofinanziarci. E' uno dei vantaggi del piano europeo, che non è così miracoloso come sosteneva Conte: risparmiamo un po' di interessi sui soldi a prestito, che comunque bisogna restituire, e quanto a quelli a fondo perduto che tutti i paesi prendono, ne riceviamo netti circa 26 miliardi, visto che dobbiamo contribuire direttamente o indirettamente a finanziare i fondi perduti assegnati agli altri paesi europei. E' un aiuto, ma non è il caso di stappare troppo champagne come hanno fatto per mesi Conte e compagni, perché le bollicine costano care e non possiamo permettercele.

Draghi ieri pur rimarcando come in Italia stia tornando la fiducia che è medicina di finanza pubblica importante come e forse ancora più degli aiuti economici altrui, non ha fatto velo della debolezza dell'Italia che rende impegnativo ogni percorso: il debito pubblico è esploso, e rientrare in parametri più tranquillizzanti non sarà facilissimo. Non solo: “Nel 2020, i governi europei hanno utilizzato in maniera corposa le garanzie statali, per un ammontare di 450 miliardi di euro nei soli quattro Paesi più grandi dell’Unione. Alcune di queste garanzie probabilmente dovranno essere – come dire – realizzate. Una politica di bilancio espansiva è essenziale, quindi, per preservare ritmi di crescita sostenuti che, a loro volta, permetteranno di ridurre l’indebitamento.

Tuttavia, è importante che tutti i governi si impegnino nel medio termine e nel lungo termine a tornare a una politica di bilancio prudente, una volta che la crescita sarà di nuovo sostenibile. Questo serve per rassicurare gli investitori, prevenire eventuali rialzi dei tassi d’interesse, e dunque favorire gli attuali programmi di investimenti”.

 

Draghi ha anche rassicurato sul dubbio che molti osservatori avevano: che senso ha ricevere tanti soldi se poi torna in vigore il patto di stabilità e quindi di fatto non potranno essere usati per la spesa pubblica che dovrà essere nuovamente ristretta? Il premier è stato netto: “Il patto di stabilità e di crescita, così com'era prima, è superato e questa ormai è convinzione comune. Saranno circa tre anni che continuo a osservare che le regole fiscali che avevamo non erano più adeguate, ma oggi è definitivamente superato.

Abbiamo tutto il tempo per una discussione che mi auguro sia equilibrata e informata, perché, sulla base di quanto mi ha detto il commissario Gentiloni, durerà per tutto il 2022 e si ricomincerà a vedere se avere regole di bilancio e quali debbano essere soltanto nel 2023. Pertanto abbiamo tutto il tempo, il Governo ci sta già lavorando; si tratterà anche di vedere, anzi di cercare di fare una specie di fronte comune su un certo orientamento: in questo periodo, dunque, approfondimento analitico e diplomazia economica devono andare insieme”. Una svolta vera, senza fuochi di artificio ma con sostanza che non vedevamo in questo paese da gran tempo.
 

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