Conte si scontra con Casaleggio ma il suo vero obiettivo è far cadere Draghi
Ha qualcosa di surreale il duello Casaleggio-Conte andato in scena ieri attraverso due interviste incrociate dopo la separazione ufficiale della piattaforma Rousseau dal Movimento. Entrambi infatti hanno l’obiettivo di recuperare i cosiddetti duri e puri, i cui capataz hanno riscoperto il valore delle origini dopo aver perso posti di governo o comunque potenziali quote di potere con l’avvento di Draghi. Ed entrambi hanno il premier nel mirino, come conferma l’interpretazione autentica data dal Fatto quotidiano nel titolo di apertura: «Conte, prime sfide a Draghi». Perché nonostante i toni ecumenici e i poco convincenti attestati di fedeltà, nella testa dell’avvocato del popolo frulla eccome l’idea di far uscire i Cinque Stelle dal governo una volta varcata la soglia del semestre bianco, ad agosto, nel tentativo di scongiurare un nuovo bagno di sangue elettorale alle amministrative d’autunno. In mezzo a questa contesa sorda troneggia Di Battista, il convitato di pietra delle ultime convulsioni grilline, che dal finto Aventino in cui si è ritirato continua a cannoneggiare il quartier generale attestandosi sulla confortevole trincea del no a tutto, pur dichiarando lealtà a Conte: fino a che il Movimento sosterrà «il governo della Confindustria», lui starà sempre dall'altra parte della barricata, giudica sbagliata l’alleanza strutturale col Pd ma esclude anche un ritorno all’alleanza con Salvini.
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Insomma, l’unica rotta percorribile è quella del ritorno allo splendido isolamento, senza se e senza ma, acuendo così la faglia tra nostalgici e ministeriali: un caos molto poco calmo dal quale emergono ad una ad una tutte le contraddizioni del grillismo di lotta e di governo, e l’incognita ora è se e in che misura l’avvocato del popolo sarà in grado di gestirle. A partire dal totem dei due mandati, sul quale non ha mai preso una posizione netta, e su cui Casaleggio ha buon gioco a fare la voce grossa, ben sapendo di toccare un tasto caro alla maggioranza silenziosa dei gruppi parlamentari. «Il modello del M5s ha dato la possibilità a migliaia di cittadini sconosciuti, come lo stesso Giuseppe Conte, di rivestire ruoli prestigiosi e di potere impensabili» – ha sentenziato, e non è stato un riflesso di autocoscienza per i danni irreparabili causati dall’uno-vale-uno alla credibilità della politica, ma una orgogliosa e incredibile rivendicazione del passato nei confronti di chi oggi, invece, «vuole dare questa possibilità a persone ben definite». Un tragico vulnus – quello di un casting che ha fatto vincere a una schiera di incompetenti il biglietto della lotteria Parlamento - trasformato in un vanto, dunque, senza uno straccio di autocritica. In questo la sintonia con Di Battista è totale, additando i poteri forti come i responsabili della fallita rivoluzione grillina.
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Una lettura da cui, almeno ieri, Conte si è sottratto negando l’ipotesi di un complotto internazionale per disarcionarlo da Palazzo Chigi e prendendo apparentemente le distanze da Travaglio, che sul Conticidio ha scritto perfino un libro, ma il veleno sparso tra le righe contro Draghi ha fatto comunque trapelare ostilità e disappunto, imputandogli ad esempio l’«emarginazione» dell’Anac, l’autorità nazionale anticorruzione che lui, da premier, lasciò per oltre un anno senza presidente. E rivendicando il «lavoro straordinario di Arcuri», oggetto di «critiche ingenerose e spesso strumentali», come se il teorico delle Primule non fosse stato umiliato dal successo del piano vaccinale di Figliuolo.
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I prossimi mesi ci diranno se il Movimento sopravvivrà a sé stesso, se nascerà un Contromovimento dei fuoriusciti e cosa farà Di Maio. Ma intanto l’unica verità l’ha detta Casaleggio: «Quando i principi di una comunità sono oggetto di trattativa economica si entra nella fase di liquidazione». Appunto.