Cosa vogliono darci a bere. Paragone smaschera Ue e governo sulla global tax
Prendi un gruppo di grandi evasori a norma di legge, aggiungici il loro enorme potere di ricatto e infine chiudi con un gruppo di governi frignanti e deboli cui non resta che accettare l’offerta di una transazione al ribasso ed esultare perché almeno raccattano qualcosa invece di niente. Miscelare il tutto, agitare e infine servire freddo. Eccolo il beverone estivo dal nome figo: la global tax.
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Perdonatemi se la prendo con ironia ma questa esaltazione collettiva per un accordo mondiale che gli Stati sono pronti a chiudere coi campioni mondiali di magie fiscali proprio non la capisco, né la accetto. I governi esultano e vogliono darci a bere che la global tax sia un successo.
L’aliquota globale minima al 15% è un compromesso al ribasso, l’ennesima dimostrazione di come ormai gli Stati siano stati stracciati dai mèta-Stati, cioé dalle multinazionali e dai fondi finanziari speculativi. Fa ridere - inoltre - che ad esultare sia quella Commissione europea, composta da commissari che fino a poco tempo fa condividevano il «governo dell’Europa» con il santo protettore degli evasori fiscali a norma di legge, ossia il lussemburghese Jean-Claude Juncker.
Ora io non so cosa il governo italiano ci verrà a raccontare in Parlamento, ma fin da ora dico che se la proposta è questa allora esigo una «tassa italiana» con aliquota unica al 15% per chi produce in Italia almeno all’80 per cento, certificato. E vi garantisco che di gente così c’è n’è: l’altro giorno ho conosciuto una realtà che produce nelle Marche ed è leader mondiale, la Triride. Fanno dispositivi per carrozzine per disabili: fiscalità di vantaggio zero, rotture dalle gare al ribasso mille.
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Non capisco il motivo per cui si debbano premiare le multinazionali per paura che non paghino le tasse e invece agli imprenditori italiani debbano arrivare cartelle esattoriali per una mora, bollette stratosferiche, mazzate sui denti dalle banche, affitti e altro ancora. Non capisco perché le multinazionali del delivery possano pagare un po’ di tasse» mentre un ristoratore italiano debba morire sotto il peso di Agenzia delle Entrate; oppure possano sfruttare i rider sottopagandoli mentre un pizzaiolo per far consegnare la sua pizza da un collaboratore debba pagare quel collaboratore più del doppio.
L’altro giorno ero a Napoli, in una delle strade più conosciute al mondo: via San Gregorio Armeno, la strada dei presepi. Centocinquanta metri di strada per 40 botteghe artigianali, alcune delle quali al gancio per mancanza di liquidità, per cartelle varie, bollette e affitti da pagare (sì, pure gli affitti «perchè se non glieli paghi puntualmente c’è la fila fuori la porta del proprietario pronto a subentrare. Altro che sospensione degli affitti»).
Parlando con questi maestri artigiani ho saputo che investitori stranieri (per lo più cinesi) sono pronti a comprare le nostre pregiate botteghe. Per fortuna il fronte si è compattato e sta reggendo. Ma io domando: è mai possibile che uno Stato che «regala» soldi ai Benetton invece di recedere il contratto per giusta causa (43 morti in Italia evidentemente non bastano, vero grillini?), che fa sconti fiscali a chi si compra a prezzi di saldo Montepaschi di Siena e che comunque stende tappeti rossi alle multinazionali, non sia capace di impostare un reset fiscale dopo un anno di zero incassi?
Tra pochissime settimane dovremo pagare Iva, cartelle esattoriali del 2020 (tutto in una botta), Irpef, Ires e Ttari. E poi c’è la mannaia del Durc in regola: ma qualcuno ha capito che i piccoli imprenditori italiani e le partite Iva sono con l’acqua alla gola? Forse no, perché hanno da pensare a Bella Ciao, al ddl Zan, allo Ius Soli e a tante idiozie travestite da urgenze.