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È già tornata l'Europa cattiva, Bruxelles ricomincia a minacciarci

Franco Bechis
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In un anno è cambiato il mondo, è cambiato il modo di vivere di ciascuno di noi, di guardare al presente e al futuro. Ma non è cambiata o è cambiata assai meno di quel che ci si sarebbe attesi l’Europa con le sue liturgie e le sue regole ferree concepite in un’altra era.

Lo abbiamo capito ieri leggendo i rapporti della Commissione europea sullo stato delle economie del vecchio Continente e ascoltando le parole del vicepresidente della stessa commissione, il lettone Valdis Dombrovskis. Che ci ha annunciato il ritorno dal primo gennaio 2023, quindi quasi domani, di tutte le vecchie regole ammuffite della finanza pubblica continentale, del deficit pil sotto il 3%, del fiscal compact che ci costringerà a dissanguarci per ridurre il debito pubblico esploso con la pandemia e dell’era dell’austerità che pensavamo archiviata per sempre. In sostanza quindi avremo quest’anno un piccolissimo anticipo del tanto declamato Next generation Eu, l’anno prossimo una rata un po’ più consistente e appena ricevuto quello che serve a risollevarci dal baratro in cui la pandemia ci ha fatto sprofondare dovremmo iniziare a restituire e tagliare assai più di quello che si era iniziato a investire. Una prospettiva non tanto terrificante, quanto stupida, perché vanificherebbe proprio il passo compiuto con fatica negli ultimi dodici mesi con quel programma comune per le prossime generazioni che sembrava avere fatto capire l’esigenza di voltare pagina per sempre da quelle vecchie regole, rendendo semmai permanenti quelle nuove costruite con così tanta fatica.

 

 

 

Se questa ascoltata ieri è invece la prospettiva, allora davvero abbiamo bisogno di tenere fermo al posto dove oggi è Mario Draghi per dargli come vera missione (a lui più consona del piano vaccinazioni), quella di trattare intanto una sospensione del patto di stabilità europeo ben oltre la data che la commissione oggi immagina, almeno fino all’esaurimento del Next Generation Eu. Senza questa decisione governare l’Italia diventerebbe impossibile e comunque inutile, perché nessuna scelta vera sarebbe possibile e ci prepareremmo ad anni ancora più complicati di quelli che abbiamo messo alle spalle. Poi per carità consigli e osservazioni di Ursula von der Leyen sulle scelte adottate in emergenza dal governo italiano possono essere utili e ben accetti, tanto più quando sono razionali. E ce ne sono nel rapporto sull’Italia diffuso ieri dalla Commissione. Ce ne è uno di particolare attualità, che censura la scelta adottata sul blocco dei licenziamenti. Che viene definita una scelta politica che «tende a influenzare la composizione, ma non la portata dell'aggiustamento del mercato del lavoro».

Si ricorda - al contrario di quel che hanno sostenuto prima Giuseppe Conte e poi il Pd - che «l’Italia è l’unico Stato membro che ha introdotto un divieto universale di licenziamenti all’inizio della crisi Covid 19». E che «in pratica, questa misura avvantaggia per lo più gli "insider", cioè i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, a scapito dei lavoratori interinali e dei lavoratori stagionali. Inoltre, un confronto con l’evoluzione del mercato del lavoro in altri Stati membri che non hanno introdotto tale misura suggerisce che il divieto di licenziamento non è stato particolarmente efficace e si è rivelato superfluo in considerazione dell’ampio ricorso a sistemi di mantenimento del posto di lavoro». Paesi come Germania e Francia «sono riusciti a contenere l’impatto sul mercato del lavoro senza ricorrere a misure restrittive come il divieto assoluto di licenziamenti. Il divieto di licenziamento potrebbe addirittura rivelarsi controproducente, più a lungo è in vigore, poiché ostacola il necessario adeguamento della forza lavoro a livello aziendale».

 

 

 

Sbagliato secondo la Ue anche il Decreto Agosto dell’anno scorso con la sua decontribuzione sul lavoro privato: «La misura adottata dal governo non è limitata a particolari segmenti del mercato del lavoro (es. giovani, disoccupati di lunga durata), e si applica sia ai nuovi rapporti di lavoro esistenti, il che implica una perdita di efficienza rispetto a misure potenzialmente più mirate». Preoccupa anche la situazione delle banche italiane e la scarsa riduzione in pancia dei crediti in sofferenza che sono anzi destinati ad aumentare con un differenziale già preoccupante oggi rispetto alla media Ue (è esattamente il doppio degli altri), e molte incognite si nutrono sulla annunciata riforma fiscale, anche perché il governo italiano non ha al momento fornito alcun particolare. L’invito ha un refrain antico ma di una sua efficacia: spostare la pressione fiscale dal lavoro e dalle persone alle cose, rinunciando a troppe aliquote Iva agevolate. Potrebbe non essere sbagliata l’opinione comunitaria che con più reddito nelle tasche delle classi medie un aumento dell’Iva pensato in modo intelligente non andrebbe a contrarre i consumi degli italiani.

Buoni consigli, dunque. A patto di potere fare delle scelte, perché se nelle condizioni di finanza pubblica attuali l’Italia avrà come ora d’aria solo l’orizzonte da qui a fine 2022 e poi l’ossigeno improvvisamente verrà tolto, nessuna scelta sarà possibile...

 

 

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