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Mario Draghi si allontana dal Quirinale: le nomine del Premier mandano in tilt i ministri

Luigi Bisignani
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Caro direttore, nel risiko del potere, in fatto di nomine prima si parlava di lottizzazione e clientelismo; oggi, più elegantemente, di discontinuità. Ma il risultato, anche con un premier come super Mario, non cambia. Avanti quindi «in nomine Draghi» con gli amici e gli amici degli amici, molti dei quali scelti più per affiliazioni familiari, «gesuite piuttosto che euclidee», che per competenze. La nuova stagione dei draghi è iniziata con diversi casi limite: la nomina della cognata di Paolo Gentiloni, Alessandra Dal Verme, catapultata al Demanio dove i dirigenti sono sempre più basiti per le continue sfuriate, la conferma di un altro grande amico del Commissario Europeo, Alessandro Profumo in Leonardo nonostante gli inciampi giudiziari per cui è mal visto dai players internazionali, la resurrezione dell’«ever green» Franco Bernabé, grande amico del Presidente, mandato a Taranto all’ex Ilva a litigare con l’Ad Lucia Morselli, ovvero destinando il malmostoso Francesco Caio, già in guerra con il mondo, in una società strategica come Saipem. 

 

 

Ma il colpo vero, fatto a sfregio dei partiti e anche del Quirinale, è l’arrivo del «Draghi-boy» Dario Scannapieco in Cassa Depositi e Prestiti. E, come un perfetto draghino, ha già detto che rivoluzionerà tutto, all’insegna del detto popolare «scopa nuova, scopa bene» bloccando così tutti i delicati dossier ormai ben definiti da Fabrizio Palermo. Ma se alla fine le poltrone vanno e vengono, ci sono posti più fissi di altri: è il caso del direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera, scontroso erede di nobili decaduti abruzzesi. Chiunque abbia avuto a che fare con le partecipate pubbliche sa che, assieme al fido collega della direzione settima, Filippo Giansante, Rivera è il volto dietro il quale si nasconde il tappo burocratico di qualsiasi progetto, dalle autostrade alla fibra. Davanti a problemi enormi è solito chiudersi in se stesso ed evita di rispondere perfino alle telefonate, una cattiva abitudine che riservava anche al ministro Giovanni Tria, «topolino» per gli amici, che nel 2018 lo piazzò su quella poltrona. Eppure, nel caso del dg del Tesoro, illuminato anche lui dalla stella di Francesco Giavazzi, la discontinuità non vale, nonostante il tentennamento sui grandi progetti. Iniziando dalle infrastrutture TLC, dove ci sta mettendo del suo anche il ministro Colao (ex Vodafone), il focus è tutto sulle coperture «mobili» al posto di quelle «fisse» con la tecnologia 5G. 

 

 

Questo scenario pare che avvantaggerebbe chi stenta a realizzare la rete (OpenFiber) o chi proprio non ce l’ha (appunto Vodafone) ma in compenso ha speso tanto in risorse e licenze 5G. Il silente ministro Colao sta confondendo le idee tra inutili comitati e tavoli tecnici con il risultato, secondo i più maliziosi, di agevolare la sua vecchia azienda, da dove era uscito con qualche ammaccatura ma anche con una leggendaria liquidazione in tasca, a danno dei progetti più avanzati portati avanti dalla Tim di Luigi Gubitosi. Ma non è solo Colao a ingarbugliare le strategie: anche sull’energia assistiamo ormai a un duello continuo tra ripicche e rivendicazioni di competenze tra il Mise di Giancarlo Giorgetti, sempre più sfiduciato, e la cosiddetta transizione ecologica del ministro Cingolani, il quale ha ben capito in quale inferno è finito e non vede l’ora di tornare a fare il manager, e non solo per lo stipendio che non ha più. Altri ministri, invece, ancora non trovano la quadra perché con Draghi non riescono nemmeno a interloquire: il presidente del Consiglio, si dice a Chigi, meno li vede meglio sta. Come Giovannini al MIT, che pure può contare sulla benevolenza delle «penne bianche» del Quirinale, Mattarella e il fido Zampetti, come vengono affettuosamente soprannominati nei Palazzi o come la sottosegretaria allo Sport e alla Salute Valentina Vezzali, che non vedrebbe l’ora di destinare una stoccata delle sue al premier, dal quale non riesce neppure a farsi ricevere e passa le giornate a incontrare improbabili uomini di sport del sottobosco romano o sognando di candidarsi con la Lega nelle Marche. Ma anche alcuni big al Governo cominciano ad essere insofferenti al metodo travestito da realpolitik di Draghi. Andrea Orlando, ad esempio, è rimasto molto irritato per come è stato lasciato solo nel tritacarne di Confindustria e Sindacati sui provvedimenti per il lavoro che, a suo dire, erano stati tutti concordati con la Presidenza del Consiglio. 

La domanda, dopo questi mesi, sorge spontanea nei Palazzi: quanto può durare questo metodo Draghi, un uomo solo al comando con ministri che si sentono sempre più isolati e che tratta partiti e Parlamento come dei soprammobili? Vero è che, se continua ad essere il «centro di gravità permanente», il Quirinale resta fuori dalle sue orbite. E forse è proprio quello che vuole.

 

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