Voto del futuro

Legge elettorale, il maggioritario può ridare all'Italia stabilità e politica

Alessandro Giuli

Ha ragione Debora Serracchiani, sebbene più nella sostanza che nella forma: "La legge elettorale deve essere lo strumento migliore per costruire il nuovo centrosinistra". Con queste parole, il capogruppo del Partito democratico alla Camera ha sintetizzato un breve ragionamento ispirato da una domanda di Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera. La giornalista la sollecitava sulle divisioni interne al Pd, con il segretario Enrico Letta a favore di un sistema maggioritario e una parte non residuale del partito più incline al proporzionale (che di fatto è già il cardine della legge vigente). Serracchiani ha risposto in modo un po' elusivo - "il Pd ha una vocazione espansiva e uno spirito maggioritario, non possiamo però non tener conto delle condizioni in cui oggi facciamo politico..., le istanze che vengono anche dal Pd di una legge elettorale di stampo proporzionale sono serie e saranno oggetto di dibattito all'interno del partito" - ma ciò che davvero conta sta, come si diceva, in fondo: il sistema di voto "deve" essere (anche) lo strumento per rimodellare le coalizioni.

 

  

 

Alcuni osservatori hanno criticato tale eccesso di sincerità, rilevando che lo scopo di una legge elettorale è anzitutto quello di dare compiutezza alle istanze di governabilità e rappresentanza della sovranità popolare. Ma a ben vedere, con tali osservazioni, siamo nel pieno di una tautologia: governabilità e rappresentanza possono e devono coesistere in modello di equilibrio nel quale il ruolo dei partiti e delle alleanze sia strategicamente centrale. E veniamo così alle scelte di contenuto. Letta proviene da quella blasonata cultura del cattolicesimo tecnocratico che ha conosciuto la sua ultima stagione di gloria nell'ambito del bipolarismo introdotto in Italia da Silvio Berlusconi. La vocazione maggioritaria della seconda metà degli anni Novanta ha prodotto nella nostra Nazione i governi più durevoli nel tempo, più stabili nelle linee d'indirizzo e più coerenti nelle maggioranze sottostanti. Con in più un dettaglio non trascurabile: la contrapposizione dei Poli ha innescato un fenomeno d'inclusione e moderazione delle ali estreme del Parlamento tale da configurare nel centro quel luogo ideale di sintesi ove si decidono le sorti della competizione elettorale. Non poco, dunque.

 

 

Oggi, alla luce delle rocambolesche giostre parlamentari che in questa legislatura hanno dato vita a tre governi, sembra giunto il momento di riconoscere l'urgenza di un superamento formale del tripolarismo Pd/M5s/centrodestra che già nei fatti risulta obsolescente. I tentativi di raggrumare un sodalizio di centrosinistra tra democratici e grillini è in essere da tempo e attende soltanto la benedizione delle urne. Quanto al centrodestra, qui sono gli elettori più ancora dei leader a mostrarsi storicamente insofferenti verso la frammentazione e a premiare figure carismatiche capaci di fare squadra e portare a sintesi le diverse culture di origine. Il tripolarismo non è figlio del proporzionale, certo, semmai ne è l'implicita causa efficiente poiché tende a pietrificare Parlamento attraverso i litigiosi sortilegi tattici delle tre minoranze di blocco. Ebbene, lo stato d'eccezione personificato Mario Draghi con il suo governissimo tecno-politico non potrebbe forse preludere a un ritorno alla normalità in cui il populismo e il sovranismo finiscano per sublimarsi in cultura di governo d'ispirazione socialdemocratica e liberale? Il voto alle prossime amministrative dovrebbe incaricarsi di darci una prima risposta.