Riforma della giustizia, "Cartabia uguale Berlusconi". I giustizialisti ripartono all'attacco
Le linee garantiste su cui la ministra Cartabia sta incardinando la riforma della giustizia hanno già scatenato il solito circuito mediatico-giudiziario che, messo alle strette, è ricorso alla semplificazione più ovvia: Cartabia uguale Berlusconi. L’unica differenza è che oggi nessuno parla di tentato golpe contro la magistratura né di attentato alla Costituzione, anche perché se la riforma andrà in porto rimetterà la giustizia italiana proprio nell’alveo costituzionale del giusto processo e della sua ragionevole durata.
E in quanto a giusto processo, le vicende giudiziarie di Berlusconi dicono molto sullo stato della giustizia in Italia. Sarà però un percorso obbligato ma faticoso, perché i punti sensibili e soprattutto divisivi sono molti dopo anni di guerra di trincea.
Nel mirino, ad esempio, c’è la proposta di abolire l’appello da parte del pubblico ministero in caso di assoluzione dell’imputato in primo grado, ritenuta dal fronte giustizialista una provocazione, perché contrasterebbe col principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e squilibrerebbe a favore della difesa la bilancia della giustizia. Valutazione abbastanza spregiudicata, visto che abbiamo un sistema giudiziario in cui lo strapotere dell’accusa è lampante, anche a causa della mancata separazione delle carriere tra giudici e pm.
Non c'è ombra di dubbio, quindi, che quello dell'inappellabilità sia un principio di civiltà giuridica, soprattutto in Italia dove un avviso di garanzia diventa una condanna definitiva: un cittadino che viene assolto in primo grado ha diritto a non dover subire ulteriori passaggi giudiziari, visto che un tribunale lo ha già riconosciuto innocente. Come accade, del resto, in quasi tutto l’’Occidente, dove prevalgono sistemi giudiziari che non consentono alla pubblica accusa di impugnare le sentenze di assoluzione (Stati Uniti e Gran Bretagna, per esempio), o che comunque ne limitano la facoltà (come in Francia). E non risulta che si tratti di Paesi in cui si vuole assicurare l'impunità ai delinquenti. Negli Stati Uniti è il quinto emendamento a stabilire che "nessuno può essere processato due volte per la stessa accusa".
L'unico ragionevole dubbio è se una riforma del genere debba essere fatta con legge ordinaria o con una di rango costituzionale, per non incorrere nella mannaia della Consulta come avvenne nel caso della legge Pecorella del 2006 che introduceva una riforma analoga.
C'è un'ultima considerazione da fare su questo delicato argomento: l'Italia ha scelto di uscire dal sistema inquisitorio del codice Rocco, per accostarsi alle regole e alla filosofia del sistema accusatorio di tipo anglosassone, quello, per intenderci, in cui la prova dovrebbe formarsi nel processo. Ebbene, proprio il modello accusatorio anglosassone prevede l'intangibilità delle assoluzioni in primo grado. Quelle sentenze, salvo eccezioni estremamente limitate e rigidamente regolamentate, chiudono definitivamente la vicenda processuale.
Ma questo è solo uno dei nodi di una riforma che questa volta va assolutamente fatta, perché è uno dei cardini del Recovery Fund, e se non si troverà un punto di equilibrio salteranno tutti i fondi del Next Generation Eu. Ma l’ala giacobina della maggioranza è sul piede di guerra, pronta a difendere il totem della dottrina Bonafede, ossia il processo a vita, e nello stesso Pd ci sono molte resistenze a prendere atto, dopo gli scandali Palamara e Amara, dell’urgenza di intervenire col bisturi per ripristinare lo Stato di diritto. Troppe compromissioni e troppe convenienze politiche hanno di fatto sbianchettato l’articolo 111 della Costituzione, secondo cui il giudice deve essere “terzo e imparziale”. E imparziale significa che non deve essere condizionato da nessuna ideologia politica. Allora non basta leggere la Costituzione, è necessario farlo con quell'onestà intellettuale di cui la sinistra italiana fa clamorosamente difetto.