Giorgia Meloni nel suo libro svela le telefonate di Conte: "Così sminuì il pericolo del virus"
Per gentile concessione di Rizzoli pubblichiamo alcuni estratti del libro «Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee», di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia.
Dall’inizio del 2020 il tempo pare sospeso, inghiottito dalla pandemia di coronavirus che ha investito tutto il mondo e che ha stravolto le nostre esistenze. In Occidente, l’Italia è stata la prima a essere colpita e, ancora una volta, gli italiani hanno risposto con una disciplina, un amore e una generosità che hanno stupito tutto il mondo e tutti gli osservatori.
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Lo si accetti o no, il COVID ha avuto sulle nostre esistenze l’impatto di un uragano. Ha spazzato via centinaia di migliaia di vite, milioni di aziende e di posti di lavoro, e più o meno tutte le certezze che avevamo. E non intendo, per certezze, solo quelle di chi per una vita si era costruito con sudore un futuro poi scomparso in pochi mesi, ma anche le conquiste basilari della nostra civiltà. A un certo punto ci siamo resi conto che cose che abbiamo sempre dato per scontate, in fondo, non lo erano affatto. La democrazia, ad esempio, che qui da noi proprio con la scusa del COVID è ancora sospesa. Il presidente Mattarella, nell’annunciare che avrebbe chiesto a Mario Draghi di assumere l’incarico di formare il nuovo governo, ha argomentato proprio con il rischio contagio l’impossibilità di votare. Come se il diritto del popolo di scegliere da chi farsi guidare, soprattutto in un momento come questo, fosse una pratica di secondaria importanza. Come se la democrazia fosse meno vitale di lavorare, comprare vestiti, andare dal parrucchiere, tutte attività che in quei giorni, in Italia, si continuavano a portare avanti.
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E, ancora di più, non possiamo dare per scontata la nostra libertà. Il diritto fondamentale degli esseri umani per eccellenza, quello dal quale dipendono tutti gli altri, si è infranto contro il muro dei DPCM, gli atti amministrativi con i quali Giuseppe Conte prima, e Mario Draghi dopo, hanno deciso se e quando potevamo uscire di casa, e dove potevamo andare quando lo facevamo. Abbiamo dato per scontato che fosse inevitabile, che la salute dei cittadini andasse tutelata pagando qualsiasi prezzo, anche quello della nostra libertà. Ma siamo sicuri che uno di questi diritti possa essere completamente sacrificato sull’altare dell’altro? Io no.
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È stato necessario e comprensibile prendere provvedimenti drastici all’inizio della pandemia, quando non sapevamo con cosa ci stavamo confrontando. Ma l’interrogativo, se volete «filosofico», ora è d’obbligo. Per quanto tempo può essere imposto a un popolo libero il coprifuoco? O la chiusura dei luoghi pubblici, o il divieto di incontrarsi tra amici e parenti, o il permesso per lavorare e studiare? Lo stato di eccezione non può durare all’infinito, né può passare il concetto che davanti a un’emergenza sia consentito limitare la libertà dei cittadini e derogare ai principi democratici. È tempo di mettere fine a questa parentesi di «eccezione» e tornare alle regole di convivenza democratica sulle quali si fondano le società occidentali. Lo Stato deve indicare delle prescrizioni utili al contenimento dell’epidemia, delle regole da rispettare, dei protocolli anticontagio. Protezioni individuali, distanziamento, eccetera. Questo gli compete ed è utile che faccia. Ma non è nel potere del governo, né dello Stato tutto, limitare a tempo indeterminato le libertà fondamentali dei cittadini.
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La terza cosa apparentemente scontata alla quale abbiamo dovuto rinunciare è stata la socialità. Stare insieme, magari abbracciarsi, persino baciarsi, insomma quell’insieme di abitudini senza le quali i nostri rapporti non possono davvero definirsi umani. E se questa privazione impatta in modo significativo sulla vita degli adulti, diventa addirittura devastante su quella dei giovani.
Già prima della pandemia dovevamo fare i conti con la difficoltà delle nuove generazioni a vivere i loro rapporti umani senza lasciarli filtrare dallo schermo di un computer o di uno smartphone.
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E il paradosso è che, invece di interrogarci sul perché abbiamo consentito che i giovani fossero i più sacrificati dal COVID, quando chi era maggiormente a rischio erano gli anziani, abbiamo quasi sempre scaricato su di loro le responsabilità. Il coprifuoco alle ventidue per impedire la movida, i soloni che ci spiegavano in tv come la seconda ondata fosse figlia delle discoteche aperte in agosto – quando era e rimane chiaro che la colpa era soprattutto di un governo che non si era adeguatamente preparato durante i mesi estivi, ad esempio potenziando i mezzi pubblici – hanno trasformato, nell’immaginario collettivo, quelli che sul piano sociale, a lungo termine, saranno le principali vittime della pandemia nei più accreditati tra gli untori.
Il coronavirus, certo, ha impattato pesantemente anche sulla mia, di esistenza. Ricordo la paura dei primi mesi, quel senso di ansia dato dal fatto di non sapere con cosa tu abbia a che fare. Credo di essere stata tra i primi a chiamare Roberto Speranza per chiedere informazioni, durante i primi giorni di gennaio del 2020, quando il problema era circoscritto a Wuhan, in Cina, e a tutti pareva troppo lontano perché potesse coinvolgerci. Ero suggestionata dal ricordo di uno dei più bei romanzi che abbia letto in vita mia, L’ombra dello scorpione di Stephen King, che inizia proprio con un virus influenzale sfuggito da un laboratorio che in sessanta pagine, e poche settimane, stermina la quasi totalità della popolazione umana. Gli dissi: «Roberto, questa roba cinese del virus ricorda sinistramente un libro che ho letto da ragazza. Semplificando, morivano quasi tutti. Che notizie abbiamo?». Speranza mi rispose che no, non si trattava di un virus come quello narrato da King, ma la situazione era delicata e la stavano monitorando. Gli dissi di tenermi aggiornata e, ovviamente, di contare su di noi per quello che poteva servire. La mia inquietudine era amplificata dal fatto che c’era un’incredibile incongruenza tra le scene che arrivavano dalla Cina e il racconto che si faceva in Italia. (...) Il nostro governo – all’epoca il Conte II – ci spiegava che non bisognava farsi prendere dal sensazionalismo e dall’allarmismo, perché era tutto sotto controllo. «Siamo prontissimi» ci rassicurò Conte.
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Ricordo il ministro Speranza venire a riferire in Parlamento sulla situazione comunicando che non c’era motivo di allarme. Per lungo tempo il COVID è stato gestito come se l’evidenza che ognuno aveva sotto gli occhi non ci fosse. Ancora una volta la realtà piegata alla cieca ideologia, o al tornaconto. Nel giro di poco, però, la situazione è precipitata e abbiamo assistito a un radicale cambio di rotta fatto di chiusure totali e provvedimenti che hanno provato a inseguire una situazione ormai fuori controllo. Di colpo la realtà non si poteva più nascondere.
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Mi colpirono molto le prime parole di una telefonata con Giuseppe Conte all’inizio della seconda ondata.
«Ciao Giorgia, come stai?» «Preoccupata, Giuseppe.» «Perché?» «Come perché, per la situazione...» «Aaah... Vabbè ma noi siamo messi meglio degli altri...» «Se lo dici tu...» A volte ho invidiato la sicurezza dell’ex premier, quella fiducia nelle proprie capacità che sconfinava nell’incoscienza. Io, se mi fossi trovata a dover scegliere tra rischiare di condannare a morte ventimila persone o rischiare di condannarne alla morte economica cinquecentomila, con una decisione, non sarei probabilmente stata in grado di mantenere quella freddezza.
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Se sul piano politico quest’ultimo anno è stato tragico, perché ho vissuto e vivo appieno l’angoscia della nazione, dall’altra parte, nella dimensione privata, l’emergenza COVID mi ha fatto sperimentare una quotidianità quasi normale, che prima non conoscevo. Per me anche solo stare tre mesi di fila a Roma, come accaduto durante il primo lockdown, senza mai prendere un aereo per raggiungere un’altra città, è stata una novità assoluta. Pranzare a casa in settimana, un’altra. Poter giocare con mia figlia più volte durante il giorno, la più bella tra queste novità. Nel dramma del lockdown aver potuto vivere Ginevra ogni giorno, quasi tutto il giorno, è stato l’unico vero dono. Anche se io non ho mai smesso di andare a Montecitorio a lavorare, perché in casa con lei non era facile. Ricordo durante il lockdown l’ufficio deserto, il palazzo spettrale. E ricordo Roma come di giorno non l’avevo mai vista e come spero di non rivederla mai più.
Di questi mesi strani mi resterà per sempre la consapevolezza del valore del tempo, e la certezza che niente va dato per scontato, perché tutto, ma proprio tutto, può cambiare da un giorno all’altro.