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Il lavoro non è più un diritto di moda. Paragone è una furia, sinistra stracciata

Gianluigi Paragone
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L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. Ma il lavoro non è più un diritto che va di moda. Non è social. Di più, non è e basta. Eppure il primo articolo della Costituzione italiana lo conoscono tutti. Leggetelo bene: l’Italia e il lavoro sono i due estremi che tengono assieme la repubblica democratica. Il lavoro sembra quasi il chiodo su cui è appesa l’intera Carta costituzionale, tanto che il lavoro ne diventa l’anima. Il lavoro sia dalla parte del datore sia dalla parte del soggetto che fornisce la sua prestazione.

 

Il lavoro entra nella Costituzione in ogni suo aspetto, persino nella definizione della retribuzione; così come suo piano del rispetto delle parità di genere che ancora oggi non sono rispettate. È insomma la più grande sfida che i padri costituenti posero alle classi dirigenti: la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Articolo 4. I governi dovrebbero perseguire la piena occupazione. Ma da quanto tempo non si parla di piena occupazione? Il lavoro sembra essere un diritto poco moderno, una sfida che segna il passo a favore di nuovi diritti per cui persino sul palco del Primo Maggio si fa propaganda.

 

Eppure in questa Italia, nell’anno del Signore 2021, il lavoro si perde perché non ci si indigna più. Si perde tra smart working e algoritmi, tra precariato e fiscalità cannibale. Provo vergogna per un Paese che vede le multinazionali avere sempre la meglio, dove la destrutturazione del lavoro passa da norme che consentono ai nuovi padroni di avere catene di vassallaggio che tratta i lavoratori come funzione.

 

Proprio nella logistica - cioé nel comparto che fa la felicità di chi sta facendo i profitti con l’e-commerce o le consegne - i lavoratori stanno vivendo una progressiva consunzione dei diritti, persino quelli previdenziali. Il gioco delle cooperative di servizio o dei padroncini si monta e si smonta lasciando i lavoratori sempre col cerino in mano, costretti a ricostruire una posizione lavorativa e magari contributiva.

Provo vergogna che nelle multinazionali si possa licenziare per avere espresso il proprio pensiero sulla propria pagina Facebook: di questo sul palco del Primo Maggio non si è discusso, perché i lavoratori sono fuori moda. Eppure la storia di Riccardo, licenziato dalla Arcelor Mittal per aver commentato favorevolmente una fiction televisiva, doveva essere la storia di questo Primo Maggio. Una storia da Ken Loach, ma Ken Loach non è trend, non è social. È vecchio, come vecchia è la lotta a difesa dei diritti dei lavoratori.

Tornerà il tempo delle lotte, e tornerà con la saldatura della rabbia di lavoratori con partita iva e la rassegnazione di chi, sbloccati i licenziamenti, non saprà più cosa dire in casa. Sempre ammesso che quella casa riusciranno a conservarla visto che nel Pnrr torna la crudeltà di mettere all’asta le abitazioni dei debitori insolventi magari per il mancato pagamento di due rate di mutuo. Ecco, il governo amico delle banche che ritorna, sotto le euro-riforme. Anche oggi dunque è il Primo Maggio. E lo sarà anche domani e domani l’altro ancora. Ma lo sarà al buio perché le nuovi classi dirigenti hanno smesso di lottare per i lavoratori. E pure per quegli imprenditori perbene che considerano i loro collaboratori un capitale umano dal valore inestimabile. Perché ho visto tanti piccoli imprenditori suicidarsi per la vergogna di dover lasciare a casa, a causa della crisi, persone di cui conoscevano la famiglia e la difficoltà di tirare avanti.

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