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Ormai il Pd è finito, in Italia serve una sinistra liberale

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Riccardo Mazzoni
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Sembra lunare parlare di categorie della politica mentre fuori imperversa la pandemia, ma è proprio in questa fase di larghe intese, con Draghi in prima fila ad affrontare l’emergenza e disegnare un futuro di riforme strutturali, che i partiti avrebbero l’occasione di ridefinire, ove necessario, la propria identità. Quella che, ad esempio, il Pd non ha mai avuto, essendo fin dall’inizio – copyright D’Alema – un amalgama mal riuscito, tenuto insieme solo dal cemento del potere.

 

 

Ebbene, la cosiddetta ala riformista, quella che si oppone alla convergenza strategica col grillismo, dovrebbe leggersi attentamente la bella intervista in cui Giuseppe Bedeschi spiega come le dure repliche della storia indussero lui e Colletti – allievo e maestro – a traghettarli dalla sinistra marxista al liberalismo. I tempi sono cambiati, il marxismo è finito in soffitta, ma il massimalismo, bollato da Lenin come la malattia infantile del comunismo, un secolo dopo è sopravvissuto al declino della casa madre incarnandosi in Italia, alla fine, nel populismo di sinistra, di cui il Movimento Cinque Stelle, con tutte le sue contraddizioni, rappresenta la sua espressione più rozza.

 

 

Non è ancora chiaro quale figura il Pd designerà a gestire il dopo-Zingaretti, quanto sia radicata nel partito la voglia di contaminazione con Grillo e Conte, e se si tratta di una svolta definitiva o solo di un argomento tattico in vista delle prossime scadenze elettorali. Ma l’ala ex renziana, se non vuol restare intrappolata nel gioco alla meno della guerra correntizia, dovrà uscire allo scoperto, e affrancarsi dalla deriva massimalista dando magari un’occhiata a quello che si sta faticosamente muovendo al centro. Dove – su input dell’area centrista che va da Azione ai radicali di Emma Bonino, è al lavoro un comitato scientifico presieduto da Cottarelli con l’obiettivo di rinverdire la tradizione liberal-democratica che, nel solco di Einaudi, propugna l’uguaglianza delle opportunità e sembra prefigurare l’approdo a una federazione liberal-progressista esplicitamente modellata sull’esempio della Margherita. Operazione politicamente complessa, perché al di là delle buone intenzioni andrà riempita di contenuti credibili e soprattutto di consensi, ma ineludibile nell’ottica di rigenerare la sinistra dopo il fallimento conclamato del Pd.

Il liberalismo, dopo le dispute dottrinali del Novecento sulla difficile convivenza tra libero mercato ed eguaglianza sociale - e sulla distinzione col liberismo - è uno dei temi di cui si è più abusato nel dibattito politico degli ultimi trent’anni, dalla mancata rivoluzione berlusconiana alla nascita di movimenti lib-lab, che non hanno mai superato la dimensione dei cespugli. Ma europeismo, garantismo e antipopulismo potrebbero diventare il denominatore comune per trasformare la miscellanea di piccoli partiti in un raggruppamento politico di qualche consistenza, in grado di contrastare il giustizialismo, le pulsioni anticapitaliste e il ritorno allo statalismo assistenziale che sono alla base della gauche che sta rinascendo con la saldatura tra Pd, Leu e Cinque Stelle. Un rassemblement che ha ripudiato il riformismo renziano come se fosse un’eresia di destra, e che sta riproponendo tutti i vecchi stereotipi della sinistra radicale. La polverosa «ditta» dei reduci dal comunismo ha riaperto i battenti e sta per riunificarsi seppellendo la svolta del Lingotto e, con essa, anche il Pd. Ma l’Italia ha bisogno di una sinistra che raccolga l’eredità riformista e la rilanci, come fece Craxi nella Prima Repubblica. 

 

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