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Il Pd fa schifo anche a Zingaretti. Ma se n'è accorto in ritardo

Franco Bechis
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La “ditta”, come i vecchi segretari chiamavano il principale partito della sinistra, è in liquidazione. E il titolare, Nicola Zingaretti, se ne va addirittura schifato. Ieri l'uomo che guidava il Pd con una maggioranza quasi bulgara superiore al 70%, si è dimesso sbattendo la porta come mai si era visto fare. “Mi vergogno che nel Pd”, ha scritto Zingaretti in un post Facebook (inusuale, ma almeno non l'ha annunciato da Barbara D'Urso), “partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni”.

Poi è passato alle piccole camarille di bottega: “mi ha colpito il rilancio di attacchi anche di chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali che abbiamo compiuto. Non ci si ascolta più e si fanno le caricature delle posizioni”. Alla fine ha tratto le conseguenze, con tutta la retorica del caso che in momenti così si può anche perdonare: “Visto che il bersaglio sono io, per amore dell'Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità. Nelle prossime ore scriverò alla Presidente del partito per dimettermi formalmente. L’Assemblea Nazionale farà le scelte più opportune e utili”.  
Dimissioni che vanno prese con le molle, perché sembrano un modo furbo per spegnere il vociare delle correnti Pd che stava salendo oltre i livelli di guardia, accompagnandosi ai tanti mugugni provocati dal passaggio fra il governo di Giuseppe Conte e quello di Mario Draghi, e ovviamente dal rancore di chi nel tragitto ha perso la poltrona. Nelle ore successive a quel post facebook infatti anche chi avrebbe rosolato volentieri Zinga a fuoco lento si è ammansito implorandolo di ripensarci e di ritirare le dimissioni, cosa che con tutta probabilità avverrà davanti all'assemblea del partito.

È stata dunque solo una sceneggiata? In parte sì, ma anche se tutto è avvenuto in quella piazza virtuale che ha allevato la generazione Zinga, le parole pesano e in un caso così non si alleggeriscono sfumando da cinguettio a cinguettio. Un leader che si vergogna della sua classe dirigente preoccupata solo di spartirsi poltrone- parole sue- offre un ritratto terribile non solo degli uomini, ma dell'intero partito. Non che sia una grande novità: tutti sapevamo che nel Pd, ma anche nel M5s e forse in altre fila avrebbero digerito la qualunque pur di tirare innanzi la legislatura e conservarsi calda quella poltrona che gli italiani prima o poi avrebbero sottratto alle loro calde terga. Ma sentirlo dire dal leader del Pd nudo e crudo è ben altra cosa. Dice che quella classe dirigente che si appuntava medaglie false sul petto per avere saputo tenere la rotta della barca Italia durante la pandemia, sparava bugie a raffica. Perché dei guai degli italiani a loro non importava un fico secco, mentre contava solo tenere al caldo il proprio posto e non perdere un grammo dei privilegi che avevano ottenuto. Garantito quello il Paese intero poteva andare in malora.

L'avremmo sospettato vedendo le loro azioni, ma sentirlo dire con tale nettezza proprio dal leader politico che più aveva tenuto bordone e coperto con la retorica le malefatte di questa banda di cialtroni, è uno choc anche per noi. E sinceramente pure essendo stati abituati da questa gente a ogni tipo di giravolta, sembrerebbe incredibile oggi dopo avere svergognato in quel modo la sua corte, vedere il re tornare a sedersi sul suo trono come nulla fosse accaduto. Con quel giudizio espresso Zingaretti le dimissioni non può proprio ritirarle e forse farebbe bene anche a restituire la tessera del Pd che può servire a quella bisca del Nazareno a giocarsi al tavolo quei posti di governo e sottogoverno che fanno loro così gola.

Questo schifo di partito su cui ha fatto outing Zingaretti è stato travolto in questi anni dalla sete di potere. Consegnato ai margini della vita politica dagli elettori italiani che lo hanno umiliato nel 2018 dicendo loro “non voglio più vedervi al governo”, hanno fatto spallucce e un anno dopo alla prima occasione buona si sono fiondati sulle poltrone generosamente offerte loro da Conte e grillini. Lo hanno fatto assetati di potere, ingolositi dalle 500 nomine pubbliche che avevano all'orizzonte su cui hanno immediatamente banchettato, fregandosene di tutto e di tutti. Con quelle bocche spalancate verso i bocconi che si presentavano non sono stati capaci di vedere quel che accadeva intorno a loro. E come i topolini davanti al pifferaio di Hamelin hanno seguito il premier dispensatore di poltrone consegnando se stessi e la loro comunità nelle sue mani senza capire che era proprio lui a dare loro il colpo di grazia. La seconda trappola, sfruttando lo stesso formaggio di cui erano tanto golosi, gliela ha approntata Matteo Salvini insieme a Matteo Renzi caricando sulle loro spalle il governo Draghi con tutto il peso che naturalmente ha. Capisco che la trappola sia per loro micidiale e drammatica. Ma possono ancora fare peggio: trasformare tutto in burla...

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