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Ha sbagliato davvero tutto. È ora di licenziare Arcuri

Francesco Storace
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C’è un tema che sovrasta su tutti, e che porremmo volentieri al presidente Mario Draghi se fosse disponibile a parlare con i giornalisti: quanto ritiene ancora compatibile Domenico Arcuri con l’incarico di commissario all’emergenza? Il governo non ha il dovere di verificarne i fallimenti? Se la campagna vaccinale è un flop chi paga? 

Il manager che non riesce ad adempiere al proprio mandato va licenziato oppure no? Il premier non dovrebbe essere insensibile - per cultura e storia personale - al tema dell’efficienza. Ma in questo caso Draghi appare eccessivamente prudente. E fa male. Perché significa chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Già ci si siamo dovuti tenere al ministero della sanità Roberto Speranza. E ci sta che non si possa scontentare chi, in alto, ne chiedeva la conferma. La politica è anche questo. Il rischio che corre Draghi nell’accettare quel ministro potrebbe però verificarsi in caso di esplosione incontrollata dell’inchiesta di Bergamo sulla pandemia e le carenze d’azione dell’Italia. Per amor di Patria ci auguriamo di no anche se quelle decine di migliaia di morti della prima ondata - centomila ormai con la seconda - reclamano giustizia. Ora, a protezione di Arcuri, si racconta la favola dei vaccini sui quali ha sbagliato l’Europa. Il che, per un governo che rivendica ad ogni ora del giorno e della notte il proprio tasso di europeismo, non è esattamente il massimo. Ma non è neppure vero che abbia sbagliato solo l’Europa. Perché l’Italia, se ne è parte, ha accettato quelle regole. E ad esse si è adeguato lo stesso Arcuri con un piano vaccinale catastrofico.

 

Abbiamo accettato tutto, a scatola chiusa. Millantava Arcuri il 5 gennaio al Corriere della Sera a tutta pagina: «A noi tocca il 13,46%» di dosi. Ed esaltava il meccanismo: «Tutti i paesi si sono impegnati a non procedere ad acquisti diretti. È stata ed è una bella pagina dell’Europa». Uno così andava ricoverato subito. Poi informava pure: «È stato attivato l’articolato piano logistico e organizzativo che abbiamo predisposto». Primula morente. Eloquente il titolo del giornale milanese quel giorno: «Non siamo in ritardo. Ecco come funzionerà il piano per le iniezioni». Non ha funzionato, semplicemente. Un mese dopo, il 5 febbraio, ci informa l’agenzia Ansa, col consueto rullo di tamburi: «Il piano vaccinale messo a punto con le regioni e le province "funziona a pieno ritmo"». Arrivano le prime dosi del vaccino di AstraZeneca, mai profezia fu più funesta. Tanto per capirci. Dai dossier sul tema Arcuri, Draghi potrà scoprire che per AstraZeneca si è usata appena una dose su 10. E che in generale sui vaccini, si è registrato un caos incredibile tra le Regioni.

Pesa la babele di 21 piani regionali. Domanda: perché non si è agito in maniera omogenea? Altrove hanno agito meglio. La campagna di vaccinazione in Gran Bretagna - dove per loro fortuna non si sono costretti da soli a contratti in partnership - sta procedendo nel rispetto delle previsioni e finora ben 18 milioni di britannici hanno ricevuto almeno la prima dose di vaccino. Da noi, invece, al momento più di una dose su quattro (il 30%) rimane nei frigoriferi visto che su 5,2 milioni di dosi disponibili le somministrazioni sono state quasi 3,7 milioni: inutilizzate dunque 1,5 milioni di dosi, numeri troppo alti e non giustificati dalla necessità di accantonare i flaconi per le seconde somministrazioni, si fa notare.

 

 

Poi ci sono un paio di argomenti non eludibili, presidente Draghi. Arcuri, come numero uno di Invitalia, ha impegnato la sua azienda a lavorare e finanziare al cosiddetto vaccino tricolore, Reithera. Poi sempre Arcuri, come commissario, ne decide l’utilizzo. C’è un evidente conflitto di interesse. Che era stato segnalato dall’associazione Luca Coscioni, con qualche rilievo - ohibò - proprio in tema di europeismo, scarso stavolta: «L’investimento in Reithera Srl, del quale Invitalia ha appena acquistato il 30% per 81 milioni di euro di soldi pubblici, solleva una serie di dubbi procedurali e questioni di opportunità. Il conflitto di interessi tra ruolo di coordinatore del piano vaccinale e ruolo di manager investitore in uno specifico vaccino è evidente e aggravato da dichiarazioni dello stesso Arcuri, per il quale l’obiettivo è raggiungere una qualche indipendenza nella dotazione di vaccini. Gli Stati Membri dell’Unione europea si sono infatti impegnati a rispettare un accordo comunitario per l’acquisto congiunto di vaccini senza contratti bilaterali con cause farmaceutiche, dunque l’obiettivo prefissato da Arcuri si scontra con gli accordi stipulati in sede europea».

 

 

«Il conflitto d’interesse in capo al dottor Arcuri – concludeva la nota dell’associazione Coscioni – pregiudica la credibilità in un momento difficile per il Paese». Interrogato, il morto non risponde. E infine il secondo dettaglio, l’ambiguità nei rapporti con Mario Benotti, collaboratore di alcuni esponenti governativi del Pd. Egli ha raccontato che Arcuri gli avrebbe confessato di essere stato informato a Palazzo Chigi di un’indagine a suo carico. E il premier attuale deve verificare che cosa è successo per davvero. Anche perché ieri l’indagine è venuta per davvero alla luce...Per porre fine alla gestione di Arcuri non serve nemmeno la conclusione dello stato d’emergenza. Il governo Draghi può rivendicare il diritto-dovere di valutarne l’operato, affidando la nomina del commissario ad una delibera del consiglio dei ministri. Basta un emendamento al prossimo decreto legge in gestazione. Anche perché - come ha notato giustamente Matteo Salvini - stavolta è un ministro, il leghista Giancarlo Giorgetti, a sondare le aziende farmaceutiche italiane per verificarne la disponibilità alla produzione dei vaccini già autorizzati. Se non ha fatto nemmeno questo, che ci sta a fare Arcuri?

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