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Draghi alla scelta più difficile: lockdown o convivere col virus

Franco Bechis

C’è una piccola novità arrivata ieri sera dal vertice di Mario Draghi con ministri ed esperti del Cts sulla situazione del virus in Italia: andranno in pensione i dpcm che sono stati il simbolo del governo di Giuseppe Conte. Non è una rivoluzione: d’ora in avanti le scelte del governo saranno contenute in decreti legge, che avranno più o meno lo stesso contenuto che ben conosciamo, ma potranno essere discussi e forse modificati in Parlamento (magari scritti meglio del primo adottato). Non c’è la svolta auspicata nemmeno nella sostanza dei provvedimenti sul Covid, perché sono ancora le restrizioni e le chiusure a tenere banco. Il Cts ha diffuso grande preoccupazione sulle varianti inglesi e brasiliane che stanno prendendo piede in Italia, paventando una crescita dei contagi che fa già parlare di terza ondata del virus.

 

  

 

Ieri in Lombardia è stata decisa una zona quasi rossa nella provincia di Brescia proprio per questo motivo e zone rosse sono state stabilite a macchia di leopardo anche in altre Regioni - Lazio compresa - sia pure in comuni abbastanza piccoli: sembra di essere tornati all’inizio della pandemia, al febbraio 2020. Non è una buona notizia neppure questa, perché a quei giorni seguì su spinta degli esperti il lockdown di marzo, il più duro che gli italiani abbiano provato fin qui.

È impensabile che si ritorni lì un anno dopo, con tutto il tempo che è trascorso da allora, gli stili di vita cambiati, i dispositivi di protezione individuale a disposizione, il rafforzamento delle terapie intensive e dei posti letto in ospedale e infine per quanto zoppicante il piano di vaccinazione ormai partito. Il solo fatto di ipotizzare il ritorno a un lockdown simile è una follia, e in ogni caso con o senza i fondi del Recovery plan la struttura dell’economia italiana non è in grado di permetterselo.

 

 

Sono pochi giorni che Draghi è al comando e sarebbe sciocco pretendere una svolta anche perché sulla protezione della salute non ci sarà perché non potrà esserci. Ma il premier non ha molto tempo davanti per compiere la scelta che si pone proprio davanti alla terza ondata: barricarci in casa contro il virus in attesa dei vaccini che arrivano con il contagocce o scegliere di conviverci salvando il più possibile le attività economiche. Nella maggioranza politica che sostiene il suo esecutivo entrambe le linee sono presenti, perfino in modo radicale: c’è chi chiede il lockdown e chi spinge sulle riaperture premendo pure il piede sull’acceleratore. Questa scelta in tempi rapidi si impone, e la può prendere solo il capo del governo facendola poi digerire a tutta la sua maggioranza: tendere a rinviarla perché le sensibilità politiche sono diverse non è una buona idea.
Avessimo i vaccini che servono da somministrare usando ogni mezzo anche il lockdown rigido ma contenuto nel tempo potrebbe essere sopportabile. Ma le dosi necessarie non ci sono e non ci saranno, perché avremmo dovuto pensarci prima tutti in Europa e non sottoscrivere con le case farmaceutiche i contratti firmati dalla commissione europea che lasciano il coltello dalla parte del manico ai produttori di vaccini.

Ieri Astrazeneca su cui aveva puntato soprattutto l’Italia ha annunciato che consegnerà nel prossimo trimestre alla Ue la metà delle dosi concordate, e non c’è modo per impedirlo. Draghi è determinato nella decisione di chiedere a tutti i produttori di rilasciare licenze per produrre in Italia. Non servirà a risolvere il problema ora perché ci vorranno fra 4 e 6 mesi per iniziare quella produzione, ma la decisione è sacrosanta e servirà a non trovarci il prossimo inverno nelle stesse condizioni attuali. Però è ora che bisogna scegliere, sapendo che la vaccinazione di massa non ci sarà e che il virus circolerà in tutte le sue varianti. Non vedo altre strade che conviverci, cercando di ritornare alla vita normale dove i dati sono meno preoccupanti e di sopportare limitazioni temporanee quando non sia così. A rilento le vaccinazioni si faranno e prima o poi ci sarà l’immunità in alcuni ambienti: già è qualcosa averla per gli operatori sanitari, arriverà anche quella di altre categorie professionali come gli insegnanti. Ma convivere con il virus e non soffocare l’economia del paese significa anche che fra chiudere la scuola e chiudere una intera filiera produttiva o commerciale, meglio la prima. Non sarà qualche settimana o mese in più di didattica a distanza il dramma insuperabile. Ma lo è proseguire ovunque con chiusure di bar, ristoranti, pizzerie, palestre e tutte le attività su cui calano le serrande nell’Italia a colori perché non sono più in grado di restare in piedi con i ristori che fin qui si sono erogati.

 

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Un altro passo dovrebbe essere fatto: tornare alla vita libera dove nessuna chiusura è più giustificata, magari semplificando i criteri fin qui adottati e riducendo le settimane di prova (oggi sono tre) in cui bisogna resistere con circolazione bassa del virus. A ieri sera ad esempio i dati Agenas sulla sofferenza della rete ospedaliera erano preoccupanti in Umbria dove i malati di coronavirus stanno occupando il 56% dei posti letto in area non critica e il 56% dei posti letto in terapia intensiva. Ma in Valle d’Aosta occupavano il 3% dei posti in area non critica e lo 0% delle terapie intensive. Perché almeno lì la vita non può tornare normale, senza coprifuoco, senza chiusure serali? Piccolissimo, ma quello sì sarebbe il segno di una svolta e anche di speranza. E siccome la situazione non è così distante da quei numeri mini nemmeno in Veneto, Sardegna e Basilicata, inizierebbero a sperare anche altri italiani. Sperare, ecco la medicina: non terrore. Solo così possiamo rimetterci in piedi.