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Soldi buttati, il reddito grillino va a 145 mafiosi

Pietro De Leo
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Arriva dalla Sicilia l’ennesima vicenda paradossale che riguarda le storture del reddito di cittadinanza. Gli uomini del comando provinciale della Guardia di Finanza di Palermo, svolgendo controlli incrociati con l’Inps, hanno individuato 145 persone, cui erano state comminate precedenti condanne per reati di mafia, che percepivano il beneficio senza avene i requisiti. Ora, questi soggetti sono stati denunciati per reato di mendaci dichiarazioni e truffa aggravata per l’ottenimento di un beneficio pubblico.

 

 

L’indagine (che è solo un rivolo di un’attività più ampia volta a contrastare l’accesso illecito alle risorse pubbliche) ha riguardato all’incirca 1.400 persone, tra le quali sono state focalizzate quante dal 2009 hanno riportato condanne definitive per reati concernenti la criminalità organizzata. E tra queste si collocano gli indagati che hanno inoltrato apposita richiesta all’Inps senza avere i requisiti per poterlo fare. Ora, il danno alle casse pubbliche derivante da questa iniziativa, quantificato dalla Guardia di Finanza, è di circa 1 milione e 200 mila euro a partire dal 2019.

Insomma, si arricchisce la triste antologia di presunte percezioni indebite del reddito di cittadinanza a carico di soggetti che hanno considerevoli guai giudiziari. Nello scorso settembre, per esempio, le Fiamme Gialle di San Severo avevano individuato 30 persone, tra detenuti e familiari di detenuti, sempre destinatari del reddito a causa di omesse dichiarazioni. In quel caso, la somma indebitamente percepita si aggirava sui 200 mila euro.

 

 

Stavolta, però, la cronaca dei fatti risulta particolarmente dolorosa e si intreccia con pagine dolorose della storia del nostro Paese. Tra i coinvolti dell’inchiesta di Palermo, infatti, risultano soggetti appartenenti alle famiglie mafiose della Kalsa, di Resuttana, di Partinico e di Carini. Oltre agli affiliati del clan Inzerillo e Lo Piccolo. E quanto accaduto ha scatenato la reazione di chi porta addosso l’orrore della violenza mafiosa. Così la sorella del magistrato Giovanni Falcone, ucciso nella Strage di Capaci assieme agli uomini della scorta, ha osservato che «l’ennesima scoperta che decine di boss condannati percepiscano il reddito di cittadinanza impone una riflessione seria. È evidente - aggiunge - che il meccanismo dell’autocertificazione e l’assenza di controlli preventivi, che garantiscano che il beneficio economico che dovrebbe sostenere persone bisognose vada a chi non lo merita e finanche a chi ha commesso reati gravi come quelli di mafia producono storture gravissime». Perentoria anche Rita dalla Chiesa, giornalista e figlia del Generale Carlo Alberto ucciso da Cosa Nostra a Palermo nel settembre del 1982. «145 casi - ragiona all'Adnkronos - sono una cifra talmente grossa che evidentemente c’è una falla molto larga che si è aperta attorno al reddito di cittadinanza». E poi osserva che il reddito «di fronte alla crisi poteva risultare utile per le persone che si trovavano in reali difficoltà finanziarie ed economiche, ma di fronte a 145 persone con precedenti per mafia che lo incassano viene voglia di esplodere». Un caso di cronaca piuttosto eclatante, dunque, che piomba nel mezzo di una fase in cui la riforma delle politiche attive è tra i principali obiettivi dell’esecutivo Draghi. 

 

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