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Chiusure, nessun preavviso. Così Draghi sembra Conte

Franco Bechis
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A poche ore dalla riapertura annunciata e pure disciplinata da ordinanze il vecchio e nuovo ministro della Salute, Roberto Speranza, ha chiuso nuovamente tutti gli impianti sulle piste di sci che avrebbero invece dovuto riaprire questa mattina.

Lo ha fatto per l’ennesima volta con un decreto che arriva a poche ore dalla scadenza, e gettando nel caos tutti quelli che sulle piste da sci si guadagnano il pane. Il nuovo presidente del Consiglio, Mario Draghi, è stato informato prima della firma sul decreto, ma non sappiamo quanto abbia condiviso, perché non ha detto una parola seguendo lo stile che vorrebbe imprimere alla non-comunicazione governativa. Eppure questo è il primo atto ufficiale del suo governo, e si inserisce nel solco tristemente noto di quello precedente. Informazioni date alla rinfusa e contraddittorie, decisioni prese in extremis e calate sulla testa della vita della gente senza nemmeno sentirsi in dovere di fornire spiegazioni.

 

 

Fino a ieri mattina gli impianti sciistici dovevano infatti riaprire in zona gialla (gran parte di Italia) dal 15 febbraio dopo un sostanziale inverno in bianco per tutti gli operatori, cui era già saltata la stagione natalizia. Ovviamente loro si erano organizzati, gli alberghi di quelle località avevano raccolto caparre e prenotazioni, gli skipass erano stati ampiamente venduti e nella certezza di ripartire con le settimane bianche erano stati attivati contratti di lavoro stagionali. Restano tutti senza lavoro, e lo sanno solo poche ore prima di riprendere la loro vita dopo che per mesi non era stato possibile. Uno schiaffo a lavoratori, imprese, Pil e turismo assestato ancora una volta con il consueto pressappochismo e senza nessun rispetto per chi si rimbocca le maniche e prova a guadagnarsi onestamente il pane. E non solo a loro, perché come si notava ieri al Monte Terminillo, ora c’è anche il tema dei turisti infuriati che avevano già pagato caparre e skipass, e bisogna stabilire chi, quando e come dovrà risarcirli.

Non sarà responsabilità di Draghi, ma certo la giornata di ieri non è bel biglietto da visita del suo nuovo esecutivo, che compie il suo primo passo in assoluta continuità con il peggio dell’esecutivo precedente. Cosa assai più grave di quella scarsa discontinuità che era stata rilevata nella presentazione della squadra dei ministri. Per altro sembra che altrettanto si possa dire delle liste che stanno circolando in queste ore sulla scelta dei capi di gabinetto dei ministeri, o della prima fila di dirigenti-manager che si stanno preparando per Palazzo Chigi e gli altri centri decisionali. È vicino alla riconferma ad esempio l’uomo più fidato di Giuseppe Conte, e cioè il segretario generale di Palazzo Chigi, Roberto Chieppa, che scrisse i testi dei più contestati dpcm e decreti del governo rosso giallo. Non c’è alcuna aria di trasloco nemmeno per Domenico Arcuri, il commissario straordinario alla emergenza sanitaria e alle mille emergenze, tanto è che la stessa Lega pronta a chiedere la sua testa (come Matteo Renzi), sembra avere mangiato la foglia ripiegando sulla sottrazione delle competenze su Ilva a favore del ministero dello Sviluppo Economico.

 

 

Se così dovesse essere, sarebbe doccia fredda su molte attese. Perché Draghi è un solista che ha lavorato anche con qualche collaboratore di fiducia, ma quello da premier non è incarico da solista con gruppettino stretto a disposizione: la squadra conta nel bene e nel male, e ogni scelta non fatta poi si paga, rivelandosi alla prova dei fatti in tempo breve una scelta sbagliata. Nessuno discute il prestigio della sua persona, anche perché un biglietto da visita così non l’abbiamo mai avuto né davanti ai mercati né davanti agli altri partner internazionali: per assurdo in questi consessi vale più il nome di Draghi che la bontà di un Recovery Plan, perché della sua persona si fidano assai più che dei documenti burocratici. Sicuramente un vantaggio, ma non è sufficiente quello per fare vedere un altro passo e conservare anche quel patrimonio di fiducia che gli italiani sembrano subito avergli affidato, ma che è fragile come le foglie al vento di Burian che impazza in queste ore.

Ieri abbiamo assistito non solo al decreto Speranza fatto in questo modo, ma anche all’attivismo di un altro ministro: quello del Lavoro, Andrea Orlando, che ha già convocato i sindacati in teleconferenza prima di discutere con il suo premier il programma che viene scritto in queste ore e che dovrà essere presentato davanti a Camera e Senato fra mercoledì e giovedì per ottenere il voto di una scontata fiducia. Se il premier non prende in mano le redini e non capisce che i tempi del suo comando non possono essere quelli assai più felpati e lenti delle sue esperienze in Banca di Italia o in Bce, le briglie si sciolgono con facilità ed è poi assai difficile riprenderle...

 

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