retroscena

Draghi punta al Quirinale ma la strada è in salita. Spunta la staffetta di governo con la Cartabia

Luigi Bisignani

Caro direttore, gli hanno dato la bicicletta e ora deve pedalare. Tra discese ardite e risalite, in 365 giorni Mario Draghi si gioca tutto. Traguardo: l’agognata conquista del Quirinale. Ma proprio da domani a Palazzo Chigi inizieranno per lui i dolori. 

SuperMario, infatti, rimarrà sconcertato quando toccherà con mano la Suburra in cui si trova l’Amministrazione dello Stato, devastata dai meccanismi dello spoil system e dalle logiche assistenziali e clientelari degli ultimi governi: una burocrazia impazzita, con norme irragionevoli, nazionali e regionali, che rendono quasi impossibile la realizzazione dei suoi progetti di rilancio senza procedure abbreviate ad hoc, così come avviene per l’organizzazione di una Olimpiade. 

  

 

Una scommessa difficile da vincere, ancor di più se si ha a che fare con vecchi volponi pretendenti al Quirinale pronti a fargli sgambetti in ogni momento. La Direzione Generale del Tesoro e la stessa Banca d’Italia ai tempi dell’ex banchiere avevano un’altra scuola e un’altra tradizione, per non parlare della Banca Centrale Europea, una corazzata minuziosamente organizzata come un lancio spaziale. Per SuperMario le congiunzioni astrali non si sono proprio allineate come sognava a Francoforte. Finita con squilli e trombe l’avventura alla Bce, fantasticava un periodo sabbatico in giro per gli Stati Uniti, tra conferenze e prestigiosi «green» da testare a colpi di swing per poi magari fare qualche buca nella tenuta di Castel Porziano.

 

Invece, colpevoli il Covid e qualche acciacco, si è ritrovato l’anno scorso ai domiciliari tra i Parioli e Castel di Pieve, occupando il tempo tra letture e incontri mirati, quasi tutti nel suo ufficio-studio al piano nobile di Banca d’Italia o nel salotto pariolino, in un’atmosfera austera, dov’era difficile ricevere persino un caffè. Ma col trascorrere dei mesi, avanzava la certezza del disastro preconizzato sul Paese governato da un premier vanesio ed evanescente come Giuseppi, il quale, ancora offeso per il mancato invito alla cerimonia di addio alla Bce - dove peraltro per protocollo era previsto solo Sergio Mattarella - non gli rispondeva neppure al telefono.

A un certo punto le bozze del Ricovery Plan che giravano in Europa hanno lanciato l’allarme rosso. Da Macron fino a Ursula Gertrud von der Leyen segnalavano che l’Italia era andata fuori controllo e che l’Europa tutta ne avrebbe patito le conseguenze. Draghi l’aveva ripetuto a ciascuno dei suoi interlocutori, da Di Maio a Salvini, da D’Alema a Zingaretti. «Solo se la situazione precipita e con una larga maggioranza sarei disponibile»: questo suo diktat Sergio Mattarella, che ha difeso Conte oltre ogni ragionevole dubbio, lo conosceva perfettamente. Poi, il grido d’allarme dell’Europa, l’ultimo drammatico messaggio della Merkel direttamente al Quirinale e la vergognosa campagna acquisti di Casalino-Travaglio sui cosiddetti costruttori hanno fatto il resto. 

 

Mattarella ha dunque «dovuto» chiamare Draghi. Ingoiando anche, a malincuore, il sì inaspettato ma fondamentale di un Matteo Salvini convertitosi sulla via di Damasco ma che il Presidente della Repubblica continua a vedere come il fumo negli occhi sbarrandogli perfino la strada per un ministero. Privilegiando nella sua composizione soprattutto il Pd - nonostante l’evidente crisi nell’anima del partito e il caos tra mocciosi dei 5Stelle - il Governo ora ha una base cosi ampia che gli permetterà di navigare nei prossimi mesi in acque tranquille. Non a caso, le bozze del Recovery Plan sono già pronte senza che i partiti ci abbiano messo becco. Sono state preparate in gran segreto nelle ovattate stanze di Banca d’Italia sotto la regia del direttore generale Daniele Franco che, con la nuova giacchetta di super ministro dell’Economia, le farà comparire come d’incanto. E l’Europa tirerà un sospiro di sollievo per il pericolo scampato. Il Piano sarà indubbiamente perfetto e dettagliato perché in questo Draghi è il migliore.

La nuova ministra della Giustizia Marta Cartabia, che di penale sa poco ma di civile sa tutto, potrebbe essere la carta vincente per l’attuazione del Ricovery Plan sciogliendo giuridicamente i numerosi lacci che si frappongono all’inizio di un’opera. Se si dimostrerà all’altezza della fama potrebbe esserci una bella staffetta a Palazzo Chigi, con Draghi in volata verso il Quirinale. A meno che per lasciarlo lavorare non si segua, nel nome delle mille emergenze, il «metodo Napolitano» con una breve proroga di Mattarella. Ma con il Pd, ridotto negli ultimi mesi a fare la grancassa di Conte, che oggi sa solo recitare la litania dell’alleanza ed è persino tacciato di maschilismo nel nuovo governo, con la fine del «grillismo» e della stagione dei populismi, resta la speranza che il centrodestra, davvero unito e con qualche nuovo arrivo (Italia Viva di Renzi?), non decida di vincere sul serio il gran tour del Colle con un suo candidato, lasciando agire Draghi fino alla fine della legislatura. Sarà la volta buona? Il dado adesso è tratto: dopo la transizione ecologica e digitale anche quella politica?