Il blitz di Renzi e il sì di Salvini mandano in crisi Zingaretti
Nicola Zingaretti ha bisogno di coccole. Perché così non campa più. È vero che come al solito ci mette del suo, ma è anche alle prese con un partito impossibile da gestire. E con le «quinte colonne» che non è stato ancora in grado di abbattere.
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Nei corridoi del partito la parola più gettonata nei conciliaboli privati è congresso. Una chiave di lettura indicava Zingaretti ostile all’ipotesi. Ora potrebbe però essere tentato dall’avventura, per eliminare tutto quel che di renziano ha ancora dentro il Pd. «Quello è una spia del Mossad», sibila Massimo D’Alema all’indirizzo di Matteo Renzi. C’è odio anche dopo la scissione e nel mirino ci sono gli amici dell’ex segretario rimasti tra i dem. «Al Senato Italia Viva ha due capigruppo, Davide Faraone e Andrea Marcucci», dicono dalla segreteria del Nazareno, tanto per capire la sindrome da accerchiamento che si respira. Terreno minato per Zingaretti, al quale si imputano anzitutto due cose. 1. Non essere in grado di esprimere una leadership rossa per la coalizione. 2. Aver abbandonato la vocazione maggioritaria del partito nata con Walter Veltroni. Il partito, nel territorio, è sbandato. C’è chi lo dice apertamente anche con riferimento al prossimo governo Draghi. Tenerissimo il tweet del circolo Pd Valle dell’Arno (chissà chi c’è dietro, si chiederanno): «L’ingresso in maggioranza della Lega ha messo in crisi molti militanti. Mi permetto di farmi portavoce di un malessere diffuso nella base», scrive il titolare dell’account.
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Non mancano messaggi che rimproverano al segretario di essere più vicino a Giuseppe Conte che al leader del 40 per cento (di un tempo andato, però). Poi, ci sono le correnti interne, che fanno sentire il loro peso a crisi in corso. Sempre i soliti, quelli di Base riformista, anche loro ex renziani. Per difendere la poltrona di Lorenzo Guerini alla Difesa, si riuniscono e chiedono che «il Governo Draghi abbia il pieno e convinto sostegno di tutto il Partito Democratico». Tutto? Chi rema contro? Allora erano vere le voci di un tentativo di sabotare il nuovo esecutivo attribuite a Goffredo Bettini (e dall’esterno a Nicola Fratoianni per Leu?) Tanto più che il colloquio di ieri di Goffredone con il Fatto Quotidiano è stato di una durezza impressionante proprio contro Renzi, (anche se poi lui ha smentito e l’intervistatore, Antonello Caporale, ha confermato). Un segnale comunque netto all’interno del partito, niente intelligenza col nemico. Chi trama contro Zingaretti ha argomenti da giocare, anche nei confronti del suo vicesegretario Andrea Orlando. «Andare sparati su Conte o il voto ci ha fatto sbattere – spiega uno dei parlamentari di provenienza Dc a condizione di restare anonimo – avremmo potuto trattare su un altro premier anziché trovarci in maggioranza con Matteo Salvini». Sotto accusa è il gruppo dirigente del Nazareno, che adesso «rivendica addirittura di aver voluto Mario Draghi. Fanno ridere».
I nervi sono davvero tesi. Anche perché ogni tanto ne esce una. Adesso è tornato alla carica Massimo Giletti – che certo non puoi definire un radical chic – che ha tirato fuori quell’inchiesta sulle mascherine che fa inquietare il ministro Francesco Boccia assieme a Domenico Arcuri. In una parola, Zingaretti è in bambola, tra piromani schierati su campi avversi sul fronte interno. Nel mezzo, cercano di buttarla in barzelletta gli altri dirigenti col ditino alzato contro Salvini, che a loro serve sempre. Ecco Debora Serracchiani, che giura che il leader leghista l’hanno «convertito loro», e idem per il vicecapogruppo alla Camera Michele Bordo che con l’ex ministro dell’Interno vuole che le «cose si chiariscano prima». Meglio parlare del nemico esterno, anche se ci si devono alleare. Non si riprendono più.
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