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SuperMario salverà l'euro e le banche ma non gli italiani

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Gianluigi Paragone
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Coi se e i ma non esce mai la stessa storia, eppure mi piacerebbe giocarci per qualche minuto. E domandare: ma se in campagna elettorale il Movimento Cinquestelle e la Lega avessero detto ai loro elettori che sarebbero stati disponibili a sostenere un governo Draghi, avrebbero ottenuto il gran consenso poi riscosso? Io credo di no.

Cinquestelle e Lega (praticamente il 50% dei voti) avevano caratterizzato la loro predicazione con temi di rottura profonda rispetto al passato. Per questo, ripeto, sono stati premiati dal corpo elettorale. Pertanto oggi il parlamento è un grande equivoco.

 

 

Conosco l’obiezione: «Ma adesso dobbiamo salvare il Paese da una situazione d’emergenza». C’è sempre un'emergenza quando si invoca un marziano: prima era l’emergenza della crisi finanziaria, dello spread; ora c’è l’emergenza sanitaria che diventa anche economica e sociale. Ed è proprio adesso che la politica deve assumersi le proprie responsabilità, è proprio sotto stress che la Costituzione diventa più che mai il baluardo. E nella Costituzione non c’è scritto da nessuna parte che vince l’uomo della Provvidenza. Il parlamento s’inchina, si umilia per far passare SuperMario, in una maggioranza che ricomprende i comunisti col rolex e i sovranisti col loden. Tutti proni per questo «astro del ciel, pargol divin», per questo «unitalian man» come lo descrisse tempo fa il Washington Post, cioé un «non italiano» come se gli italiani non fossero quel mix di genio e sregolatezza per cui gli americani vanno pazzi. Oggi i sovranisti sono pronti a votare per questo non italiano perché «Ce lo chiede la crisi» che è una forma elegante per dire «Ce lo chiede l’Europa». Un sequel di quel «Fate presto» al cui grido, proprio grazie a un Draghi complice della Troika, arrivò l’altro uomo della Provvidenza Mario Monti.

Mario Draghi non è la soluzione alla crisi ma è, per suo genoma, attore della crisi. La crisi che la sua idea muove lascia sul tavolo del popolo il conto salato da pagare. Perché questo dev’essere chiaro: il conto della crisi da un decennio lo stanno pagando le famiglie, i piccoli imprenditori, i lavoratori, le professioni. Non il mondo bancario sempre ben protetto dall’ombrello del loro caro Governatore.

Tutto questo però non si può dire. L’imbarazzante apologia di Draghi sta assumendo toni da Istituto Luce: i suoi compagni di classe, Giancarlo Magalli in testa; le partite a calcio anche se preferiva il basket; la riservatezza della moglie; le paste che mangia quando è al mare; i giornali che compra, la fila che fa al supermercato e «scoop» di questo tipo. Una propaganda talmente nauseante da domandarsi se questo è il trend del giornalismo che accompagnerà l’azione di governo del nuovo Governatore dell’Italia.

 

 

A giudicare ciò che stiamo vedendo finora pare proprio di sì, è tutto un glorioso magnificat. Guai a chiedere lumi sulle tracce che il cammino di Mario Draghi ha lasciato sulla strada italiana. Non si può oggi perché non si potè nemmeno in passato. La svendita dell’industria italiana sul panfilo Britannia - il 2 giugno del '92 quando l’Italia ancora piangeva la morte di Giovanni Falcone nella strage di Capaci - in una trattativa riservata (e per anni taciuta) alla presenza, tra gli altri, di Ciampi allora Governatore della Banca d’Italia, del suo fido Nino Andreatta, i vertici delle partecipate di Stato, della famiglia Agnelli e dei più importanti investitori esteri. E di Mario Draghi appunto, come direttore generale del Tesoro cui spettò la relazione in quanto futuro player della loro realizzazione.

E poi ancora, in mezzo a tante noterelle di colore, nessun accenno alla vicenda dei derivati che strutturarono proprio nel «suo» ministero del tesoro, derivati su cui non si è saputo bene il costo finale e che, di contro, avviarono la stagione del loro utilizzo come leva finanziaria nei bilanci pubblici. E nessun articolo scomodo è stato scritto sull’acquisto a caro prezzo di una ammalorata Antonveneta da parte di Mps, con il via libera del governatore di Bankitalia. E niente nemmeno sulla lettera della Troika contro il governo italiano (allora c’era Berlusconi) recalcitrante a fare le riforme «lacrime e sangue», quelle che poi il popolo greco subì perché altrimenti i rubinetti della Bce draghiana si sarebbero chiusi.

Ora tutti però parlano, come un battesimo purificatore, del «whatever it takes» per raccontare la svolta keynesiana. Non ricordando la frase completa: «La Bce è pronta a fare tutto il necessario a preservare l’euro». Whatever it takes to save the euro, per salvare l’euro. Non gli italiani. E l’euro agli italiani non ha fatto bene quanto ha fatto bene ai tedeschi. Ricordatevelo sempre.

 

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