Il contratto è un flop annunciato. Non riuscirà ad abbellire un governo inutile
Nelle segrete stanze dell’esploratore Fico si sta svolgendo una delle più inguardabili pantomime della nostra devastata politica: la ex maggioranza sta infatti disputando da mesi una estenuante partita di Risiko che il presidente della Camera, con gli alti auspici del Quirinale, cerca ora di trasformare in una mano di Monopoli atta solo a distribuire quote di potere. I ripromessi sposi, però, non si fidano l’uno dell’altro dopo la guerra di posizione che ha portato alle dimissioni di Conte, tanto che Renzi ha preteso che il nuovo contratto di matrimonio venga steso minuziosamente per iscritto, punto per punto, in un clima quindi di sfiducia reciproca foriero solo di nuove, imminenti tempeste.
Confindustria soccorre il Pd, una volta erano nemici
Ancora non c’è accordo né sul premier né tantomeno sul programma, e il Movimento, che resta la forza di maggioranza relativa in Parlamento, è sempre più spaccato, tanto che tra i senatori c’è già una fronda organizzata contro il ritorno di Renzi che segnala nuove perturbazioni in arrivo.
Draghi o la minestra riscaldata
La maggioranza rossogialla, se rinascerà, si porterà insomma dietro tutte le contraddizioni precedenti, anche se l’Italia di tutto necessiterebbe meno che di un altro governicchio litigioso. Ma come potrà Fico compiere il miracolo alla rovescia di ricomporre in quattro giorni i dissidi insanabili enunciati implacabilmente dal Rottamatore e che Conte ha lasciato marcire per mesi? Semplice: indirizzando la trattativa nel solco del «contratto di governo», una formula che però non produsse nulla di buono nell’anno dell’ammucchiata gialloverde.
Un governo di garanzia è cento volte meglio di questa maggioranza
La ricomparsa del «contratto» fa tornare alla mente l’immagine più illuminante dei giorni in cui Lega e Cinque Stelle si confrontarono per mettere a punto il programma di governo: quella di Toninelli che segnalò ai followers, con una sua foto postata su Instagram, la «Massima Concentrazione» con cui «stiamo affrontando questa importante missione». Un primo piano abbastanza inquietante, che rappresentò plasticamente l’aspetto folkloristico di un esperimento destinato a fallire. Perché in politica non può essere sufficiente un «contratto» a mettere insieme gli opposti, e quello siglato tre anni fa tra Salvini e Di Maio è un precedente che dovrebbe far riflettere i nuovi contraenti e soprattutto chi, dal Colle più alto, vigila sulla compatibilità della ricomposizione di questa maggioranza con le emergenze del Paese.
Il contratto gialloverde, infatti, su molti punti qualificanti fu lasciato volutamente vago, e non poteva essere altrimenti, dovendo rendere compatibili i programmi di due forze politiche che in campagna elettorale si erano dileggiate, combattute e schierate su fronti esattamente opposti. Per cui anche il leggendario Comitato di conciliazione previsto solo per dirimere eventuali divergenze sulle questioni non preventivamente concordate risultò totalmente inutile, e lo stesso contratto scolpito sulla roccia come una sorta di sacra scrittura fu oggetto di ripetute e reciproche contestazioni, visto che ognuno lo interpretava a modo suo. Dall’immigrazione alle grandi opere - con la Lega che manifestava a Torino per l’Alta Velocità Torino-Lione e i grillini invece schierati al fianco dei no-Tav -, dalla scelta tra flat tax e reddito di cittadinanza al taglio delle pensioni d’oro, dalla prescrizione dei reati alla nazionalizzazione di Autostrade, lo spettacolo fu quello di un continuo tira e molla che smascherò il vizio d’origine di un’alleanza innaturale finita nel peggiore dei modi dopo mesi di verifica permanente.
Ebbene: per uscire dal pantano in cui si sono infilate, ora le quattro sinistre non trovano di meglio che ricorrere allo stesso espediente, ma l’esito è quasi scontato: non potrà che venirne fuori, infatti, un contratto ibrido, la cui inconsistenza si è già appalesata nella pretesa dei Cinque Stelle di «tenere fuori le questioni divisive». Alludevano ovviamente al Mes, ma anche al reddito di cittadinanza che Renzi vorrebbe riformare. Il problema però è che il terreno per il premier che verrà - si tratti del Conte riciclato o di una figura nuova - si presenta già lastricato di altre «questioni divisive», a partire dall’impostazione del Recovery Plan. Non sarà dunque questo contratto-truffa a dare le risposte in grado di risollevare il Paese. Anzi: la riesumazione della maggioranza rossogialla significherà la sepoltura di ogni speranza di rinascita.