Conte appeso a un filo, il centrodestra affila le armi
Servirebbero due settimane, ce la deve fare in una al massimo. Il tempo stringe per Giuseppe Conte, e la sabbia nella clessidra della politica scorre con una velocità a cui il premier non era abituato, e forse nemmeno pronto. Ma la crisi impone di fare presto, e bene (soprattutto). Perché i numeri in Senato sono talmente risicati da non concedere quella agilità politica che il premier pensava di poter ottenere dopo il duello rusticano con l’altro Matteo, Renzi, che esce sì sconfitto ma non umiliato ed emarginato. Italia viva è ancora in partita, tant’è che il Pd prova incessantemente a far leva sugli ex compagni per convincerli a tornare all’ovile. Un corteggiamento serrato che sembrerebbe far breccia in almeno due, forse tre, cuori di democratica genitura.
La politica, però, vuole i numeri. Esattamente quelli che mancano al governo in questo momento e di cui avrà discusso Conte nel suo colloquio al Colle con il presidente della Repubblica. Perché di un «incontro interlocutorio» si è trattato, o almeno è questo l’unico commento trapelato. Niente dimissioni, dunque: il premier ha riferito a Sergio Mattarella della situazione politica, che vede una crisi (di fatto, non formale) ancora irrisolta e una ricerca di "volenterosi" che finora non ha prodotto i risultati sperati. Conte ha bisogno di rinforzare la maggioranza, ma le uscite di Maria Rosaria Rossi e Andrea Causin da Forza Italia, il sì-show dell’ex M5S Lello Ciampolillo, quello «di coerenza ma travagliato» del socialista Riccardo Nencini e l’appoggio di Maie e senatori a vita non sono garanzie sufficienti per guardare a un progetto politico che porti alla fine della legislatura con quella serenità che le crisi sanitaria ed economica, come quelle che l’Italia vive, richiederebbero.
Conte, però, è obbligato a non mostrare alcuna debolezza ma evita interviste, passeggiate o messaggi social. Resta agli atti quello lanciato nella notte di martedì, dopo aver incassato la fiducia anche in Senato: «L’Italia non ha un minuto da perdere», con tanto di priorità scritte nero su bianco: «Piano vaccini, Recovery Plan e decreto Ristori».
Ma si torna sempre al punto di partenza: senza voti sicuri il banco salta. Così convoca nel primo pomeriggio di mercoledì un vertice con leader e capidelegazione di maggioranza, per fare un punto sull’operazione "rafforzamento". Sono tre ore intense, in cui vengono messe sul tavolo le carte e la sensazione non è né positiva, né negativa. Interlocutoria, esattamente ciò che emerge dalla salita al Colle.
Del resto, la mattinata si era aperta con le parole di Dario Franceschini, uno che di politica ne mastica da anni e sa fiutare l’aria a distanza di chilometri: il passaggio parlamentare «non è un punto di arrivo, ma di partenza, su cui costruire una prospettiva politica». Ma riconosce che seppure «avessimo 161 voti al Senato sarebbe un traguardo simbolico, ma la sostanza non cambierebbe. Un governo è forte se può contare su almeno 170 senatori. Ora quindi dobbiamo lavorare per rafforzarlo». Messaggio chiaro e forte. Il capo del governo nelle aule di Montecitorio e Palazzo Madama ha garantito di essere pronto a fare la sua parte. In che modo, però, non è ancora chiaro.
Qualcuno - dalla sponda sinistra - gli suggerisce di rimettere il mandato e dar vita a un Conte-ter, rinforzando la squadra. Ma da quell’orecchio non sembra sentirci. Altri, invece, vorrebbero subito la nascita del suo partito, a chiara vocazione centrista, in cui offrire ospitalità agli eredi della tradizione popolare, socialista e liberale. Magari infarcendola con ex grillini pentiti. La soluzione, molto probabilmente, sta nel mezzo ma il tempo corre e una decisione va presa in tempi brevissimi. Perché nel frattempo gli avversari si riorganizzano.
Renzi prova a pungere: «Siamo al Conte dimezzato. Peccato il premier abbia messo la sua paura di perdere Palazzo Chigi davanti alle esigenze e ai bisogni del Paese». Ma è soprattutto il centrodestra a muoversi in maniera decisa e domani salirà al Colle con i suoi leader: Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Antonio Tajani. Anche se non è esclusa l’ipotesi di un blitz di Silvio Berlusconi. Sarebbe il segno che la sfida è davvero entrata nella fase più calda.