Giorgia Meloni cresce ancora e fa paura. La sinistra si difende offendendola
Eccolo lì, l’assalto moralistico. Ai leader democraticamente eletti, e di conseguenza a un elettorato. A muoverlo è il generone radical chic, che evidentemente in tempi di pandemia aveva la grande nostalgia del ditino puntato, dello sturbo verso gli avversari, della mostrificazione.
Ovviamente, il punto di spinta è la baraonda di Capitol Hill, epilogo brutto del quadriennio di Donald Trump, scene orribili per chi abbia minimamente a cuore la democrazia. Che però non riguardano l’Italia. Il giochetto ad ogni modo è presto fatto, pigliare l’istantanea d’Oltreoceano e traslarla qui da noi, per il solito sabba della condanna al blocco sovranista-conservatore che negli anni (non da solo, ovviamente, perché anche il buon Conte è stato della partita) ha mostrato consonanza politica con il Presidente uscente degli Stati Uniti.
Provare a contestualizzare il quadriennio trumpiano nel complesso, e non solo per quelle scene inaccettabili, di cui sicuramente il tycoon è stato complice? Vietato. L’aeropago al caviale non lo ammette. Ecco allora che il direttore de La Stampa Massimo Giannini appiccica su Matteo Salvini e Giorgia Meloni l’etichetta di «Sciamani d’Italia». Il riferimento, ovviamente, è a Jake Angeli, l’attivista di QAnon irrotto nel Palazzo a Washington mascherato da stregone, torso nudo e tatuaggi evocativi in bella mostra. E divenuto il simbolo di quell’iniziativa folle.
Ma non è finita. Giorgia Meloni scrive una lettera al Corriere della Sera in cui solleva la questione legata al consenso elettorale di Trump, un dato vero che in teoria (per quanto improbabile) potrebbe riproporsi anche in futuro? Ecco che Gad Lerner estrae il talismano ideologico buono per ogni stagione. «Per difendere il suo presidente ideale dall’accusa di golpismo, Giorgia Meloni usa questo argomento: e se dovesse rivincere le prossime elezioni lo chiamereste dittatore? Del resto, chi meglio di lei lo sa, pure Hitler nel 1933 vinse le elezioni». Poi si spiega meglio in un pezzo sul Fatto Quotidiano di ieri dove quanto a metafore non ci va giù leggero: «La lupa perde il pelo ma non il vizio». Ovviamente per le femministe era domenica.
Dunque, al di là dei contenuti, dei torti e delle ragioni, ecco qui il ben noto copione. Per mesi blandita dagli intellò progressisti in funzione l’anti-Salvini, ora anche la leader di Fratelli d’Italia viene bersagliata dal dardo del moralismo politico. Ovviamente l’operazione è duplice. Stroncare il leader da un lato e a ricasco l’elettorato, dipinto come un agglomerato di incolti trascinati dalle suggestioni, sensibili alle bufale e avvolti dall’incultura. Sbandierando, ovviamente, l’anatema fascista che fa sempre colore, anche se forse meno presa rispetto al passato. L’operazione è ben nota, delineandosi lungo l’arco degli ultimi 30 anni.
Cominciò con Silvio Berlusconi, contro il quale fu gettata la teoria dell’«Ur Fascismo», il fascismo eterno, elaborata da Umberto Eco. I suoi elettori venivano dipinti come una sorta di automi ottenebrati dalle televendite della politica. Poi è toccato a Matteo Salvini, verso cui nessuno, dalle parti dei difensori indefessi della democrazia a sinistra, muoveva un dito quando gli assalti dei centri sociali ne interrompevano gli appuntamenti elettorali. Ora si aggiunge Giorgia Meloni. In base a quel principio strano della globalizzazione per il cui il grido di un finto Sciamano in America genera la tempesta di falsi profeti in Italia.