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Crisi di governo ovunque fuorché in Parlamento. Conte deve chiarire alle Camere come andare avanti

Alessandro Giuli
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Ovunque fuorché in Parlamento? L'aspetto più disturbante e surreale della semiseria crisi di governo in atto è che se ne sta parlando dappertutto, tra mezzi d'informazione e corridoi di Palazzo, tranne che nella sede più appropriata, il luogo naturale nel quale il potere esecutivo rende conto di se stesso ai rappresentanti del popolo: le aule del Senato e della Camera dei deputati. È allora giunto il momento di ricordare a Giuseppe Conte, così come ai suoi ministri e alla maggioranza litigiosa e sfibrata che li tiene incollati, che non si pub tenere appesa la nazione ai loro tatticismi bizantini e alla protervia egolatrica di un presidente del Consiglio convinto di poter scavalcare ogni procedura e ogni canone fino a slabbrare i confini della Costituzione.

Da oltre un anno, in virtù dei pieni poteri conferiti dallo stato d'emergenza, il premier guida l'Italia a colpi di Dpcm e sfugge al confronto parlamentare per incardinare la propria comunicazione politica nel comodo alveo delle sue conferenze stampa declamatorie e moralistiche. In questo compulsivo e narcisistico ricorso alla disintermediazione risiede ormai qualcosa di più di un'inclinazione spregiudicata, incoraggiata dagli Stranamore orwelliani di cui si circonda Conte.

Possiamo parlare a buon diritto di una prassi senza dottrina destinata a costituire un pericoloso precedente. Ma soprattutto non dovremmo consentire che tale prassi finisca col prevalere anche in vista del riassestamento negli equilibri di maggioranza innescato da Matteo Renzi e dalla sua Italia Viva. Se da una parte è verosimile che la faccenda possa risolversi con un rimpasto, come dato dalla consueta dose di cosmesi retorica - un tagliando necessario.., una ripartenza più forte.., un'apertura alla collegialità e altre simili bellurie - dall'altra è inimmaginabile che il presidente del Consiglio non riferisca alle Camere sullo stato di (preagonica) salute della sua maggioranza e sul percorso di uscita dalla crisi pandemico-economica.

Dopo la recentissima umiliazione inflitta al Parlamento con l'approvazione monocamerale e a passo di carica della legge di Bilancio (il Senato ha ratificato senza discutere, pena lo scivolamento nell'esercizio provvisorio), il minimo che Conte possa fare è un'operazione di trasparenza dialettica e di resipiscenza politica intonata al rispetto della maestà istituzionale.

Agli italiani si può certamente rivolgere in diretta televisiva un augurio festivo di fine anno o una spiegazione asciutta delle ragioni su cui si fonda un decreto di emergenza; ma sulle questioni di Stato è obbligatorio discutere con chi i cittadini ii rappresenta in virtù di una potestà legittimata dal voto popolare. Ovvero ciò che manca al bispremier Conte, il quale siede sul trono di Palazzo Chigi con la sicumera d'un caudillo di provincia e si mostra via via sempre più allergico alla funzione di controllo e indirizzo caratteristica del potere legislativo. Non ci sono crisi pilotate o rimpasti che tengano: il governo e la maggioranza sono tenuti ad ascoltare i rilievi dell'opposizione (se non pure a recepirli almeno in parte, visti gli appelli alla Concordia del Quirinale) e ciò deve avvenire quanto prima, nella sede opportuna e nene forme previste dalla Carta fondamentale.

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