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Dl Ristori, il Senato fa a pezzi il decreto: bocciati gli aiuti di Conte e Gualtieri

Carlantonio Solimene
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Un decreto lacunoso, con limiti di spesa che potrebbero essere sforati e il rischio di discriminare alcune Regioni che potrebbe portare a contenziosi giuridici. Non è tenerissimo il giudizio del Servizio del Bilancio del Senato sul dl Ristori Bis che ha appena cominciato, proprio da Palazzo Madama, l'iter per la sua conversione in legge.

Finora le obiezioni al provvedimento si erano basate sostanzialmente su questioni di merito. In particolare, le opposizioni avevano fatto notare come fosse riduttivo limitare gli aiuti alle attività chiuse lasciando fuori i «fornitori» («bisognerebbe ragionare in termini di filiera» ha detto Tommaso Nannicini del Pd) e come rischiasse di rivelarsi fuorviante basarsi ancora sulle differenze di fatturato tra i mesi di aprile 2019 e aprile 2020, ormai non più attuali. Il Servizio del Bilancio del Senato, però, va oltre. E in una relazione di circa 70 pagine mette a nudo tutte le falle «tecniche» di un decreto che, con ogni evidenza, è stato redatto in fretta senza badare più di tanto alla precisione. Il primo appunto riguarda i nuovi codici Ateco inseriti tra quelli che possono attivare gli aiuti.

Ebbene, stando ai calcoli dei tecnici, l'ammontare medio dei ristori alle nuove categorie ammonta a circa 3.400 euro, a fronte dei 5.200 circa stimati per le imprese già beneficiarie del primo Dl. «Tale importo, significativamente più modesto scritto nella relazione - potrebbe essere correlato a un minor fatturato medio dei nuovi venti settori oppure a un minor declino del fatturato medio rispetto a quello delle imprese precedentemente ristorate». Ipotesi destinate a restare tali, dato che nel decreto questo chiarimento manca. Che il governo abbia lesinato in spiegazioni, in realtà, è un rilievo che nel documento del Senato ricorre per quasi tutti gli articoli. Come si sono stimate le persone destinatarie dei provvedimenti? E gli stanziamenti necessari? Mistero. Ma ci sono anche altre discrasie. Come ad esempio nell'articolo 2, che riguarda i contributi a fondo perduto per le Partite Iva. In questo caso il governo ipotizza un importo della misura pari a 563 milioni di euro. In media circa 7.200 euro per ognuno dei circa 78.000 beneficiari delle quattro regioni che per prime sono diventate «rosse» (Calabria, Lombardia, Piemonte, Valle d'Aosta). Ma cosa accade se la «domanda» dovesse superare l'«offerta»? Non è chiaro. «Sebbene sia previsto (...) il monitoraggio degli oneri della presente misura - scrivono i tecnici di Palazzo Madama - esso non è integrato dal consueto meccanismo di rigetto di ulteriori domande nel caso di raggiungimento dello stanziamento previsto».

Il contributo andrebbe quindi riconosciuto ugualmente, con aumento degli oneri. Con il rischio di una rimodulazione dei fondi (più richieste significherebbero meno soldi). Il meccanismo, in ogni caso, non è esplicitato. Il problema si ripresenta, con gravità maggiore, nell'articolo 8. Questa norma prevede che, nel caso in cui il ministero della Salute allarghi le limitazioni sanitarie ad altre Regioni (come peraltro già avvenuto) anche a queste saranno destinati gli aiuti «nei limiti del fondo» istituito a questo scopo dal Mef, «con dotazione di 340 milioni per il 2020 e di 70 per il 2021». Il ché, secondo i tecnici del Senato, crea un vulnus: siccome per le prime 4 Regioni diventate «rosse» le risorse previste non sono «modulabili» bensì fisse, lo stanziamento è teoricamente illimitato (dipende da quanti chiedono gli aiuti).

Al contrario, per le Regioni che dovessero aggiungersi all'area di massimo rischio in corso d'opera (è già successo a Toscana e Campania) un limite di spesa c'è. «Il rischio di contenziosi per violazione non ragionevole del canone costituzionale di eguaglian za appare alto, con possibili, conseguenti riflessi finanziari» avvisano i tecnici del Senato. Non si salva neppure l'articolo 4, che prevede il credito di imposta per gli immobili commerciali e che, per stimare la platea, si basa sul calo del fattu rato ad aprile 2020. Una previsione che potrebbe rivelarsi largamente insufficiente, poiché i mesi da ottobre a dicembre sono normalmente quelli di maggiore consumo e quindi «è verosimile attendersi un incremento - rispetto alla stima presentata (...) - dei soggetti che subiranno una riduzione del fatturato per almeno i150%».

Ma il decreto non fa alcuna previsione in merito. Infine c'è un rilievo all'articolo 16 sul rifinanziamento dei Caf, al fine di permetere a tutti di presentare le dichiarazioni sostitutive uniche ai fini Isee. Oltre alla possibile carenza dello stanziamento per coprire il periodo dal 15 novembre al 31 dicembre (tra i 5 e i 10 milioni di euro per 45 giorni quando si stima che il costo reale del servizio sia di 10,5 milioni al mese), a far discutere è il fatto che l'erogazione dei contributi all'Inps avverrà solo nel 2021. Ma il periodo da «coprire» è per l'appunto la fine del 2020. La funzionalità dei Caf, insomma, potrebbe essere compromessa nonostante le buone intenzio.

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