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Conte e Arcuri hanno mentito sugli ospedali

Francesco Storace
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C’è qualcosa di peggio del Dpcm di Conte che doveva entrare in vigore oggi e che solo ieri sera è stato spostato dal premier a domani. È la storia dei drammatici ritardi riguardanti i lavori per mettere a norma gli ospedali da attrezzare contro il Covid. Altro che terapie intensive. Giuseppe Conte, premier fanfarone, e Domenico Arcuri, commissario accentratore e sbrigativo, hanno provocato solo guai per gli ospedali. L’emergenza Covid la combattiamo con i perditempo e se va bene le strutture sanitarie saranno pronte dopo i festeggiamenti di Capodanno (che quindi non ci faranno fare con i lockdown a regioni alterne e le proroghe a cui ci hanno abituato).

È una storia di allucinante burocrazia quella che ruota attorno a un miliardo e trecento milioni di euro che arrivano per un’intesa – anch’essa ricca di complicazioni – con la Banca europea degli investimenti. E siccome si perde tempo – come testimonia la telenovela dell’ultimo Dpcm che doveva entrare in vigore stamane e invece slitta a domani... - arrivano le gole profonde a raccontare dettagli incredibili per i quali basta chiedere conferma ai governatori, che cominciano ad essere stufi di vedersi scaricare, in maniera vergognosa, le responsabilità da parte del governo. Altro che la leale collaborazione invocata da Conte e compagnia. Sono giorni che dalla maggioranza di Palazzo Chigi arrivano bordate sulle Regioni, approfittando del fatto che la gran parte di esse sono a guida centrodestra. E quindi giù botte. Ma i mesi sono passati invano, tra prima e seconda ondata Covid, proprio per colpa della smania di potere dei signori che governano l’Italia. A partire dal bottino. Le gare le hanno gestite lassù, mica hanno delegato le Regioni.

 

 

Tutto è cominciato quando il governo – con le migliaia di morti che contavamo a grappoli – si è deciso ad assumere le prime iniziative. Le date sono importanti, successivamente alla proclamazione dello stato di emergenza del 31 gennaio a cui seguì oltre un mese di dolce far niente. La marcia è stata innestata dando vita ad una spirale burocratica infinita. Tutti parlavano già di una seconda ondata autunnale, ma si perdeva tempo per decidere se delegare o no i territori, soprattutto laddove il Covid non aveva ancora fatto il suo massiccio ingresso. Da una parte l’emergenza continua, prorogata con altre due delibere del Consiglio dei ministri a fine luglio e il 7 ottobre. Il 17 marzo arriva il cosiddetto decreto cura Italia. Una marea legislativa con centinaia di articoli e commi. Al numero 122 arriva quello decisivo per gli ospedali. Si istituisce la figura del commissario straordinario per l’emergenza, che 24 ore dopo assume le sembianze del dottor Domenico Arcuri. Ma ci vogliono ben due mesi ancora per parlare di ospedali. È il decreto rilancio quello che varano il 19 maggio. Una incredibile discussione deve aver preceduto la decisione di affidare ad Arcuri persino la realizzazione di reparti e strutture per la lotta al Covid. Anziché affidare i poteri commissariali direttamente ai governatori, li accentrano a Roma e comincia la nuova odissea: gli eletti dal popolo devono rispondere – e pure di corsa – al signore nominato dal premier nominato. Infatti, nel dl rilancio c’è scritto che Arcuri può nominare come suoi delegati presidenti di regione o di province autonome. Le nomine, mentre lui si riserva le gare, arriveranno però ad ottobre. Nel frattempo, le Regioni sono costrette ad un’estenuante trafila burocratica che si conclude a fine agosto con i piani regionali da far approvare prima dal ministero della salute e poi immancabilmente dalla Corte dei Conti. Ad agosto finalmente il sigillo. 
Durante tutto questo tempo arriva finalmente settembre con l’accordo maturato con la Banca Europea degli investimenti. E si scopre che non possono essere utilizzate neppure le procedure previste da un nuovo decreto, quello che inneggia alla semplificazione. Altro tempo perso. Poi si arriva ad ottobre e Arcuri delega a procedere con i lavori i presidenti di alcune regioni, in altre direttamente i direttori delle Asl, che così devono rispondere al commissario e contemporaneamente al loro presidente di regione. L’ultima ordinanza – riguardante il Veneto – del 14 ottobre. Per festeggiare i sette mesi passati invano dalla nomina del commissario straordinario.

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