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A cosa serve davvero lo stato di emergenza. Ecco i due errori che Conte vuole nascondere

Riccardo Mazzoni
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Conte ha assicurato che stato d’emergenza non fa più rima con pieni poteri e con un lockdown nazionale, e ci mancherebbe altro, perché questo significherebbe uccidere definitivamente il Paese. Ma le parziali spiegazioni che il premier ha fornito sui motivi della proroga fino al 31 gennaio sono state talmente poco convincenti da richiedere ulteriori chiarimenti che è auspicabile vengano subito forniti al Parlamento. Serve davvero lo stato d’emergenza, infatti, «per mantenere in piedi la macchina della Protezione civile»? O «per allestire alcune strutture, impiegare la rete del volontariato e reclutare le task force del personale medico»? Ed è davvero necessario prorogare i poteri del commissario straordinario Arcuri dopo i pasticci di questi mesi? Non solo, a queste clamorose defaillance se ne stanno per aggiungere altre due ancora più gravi: la drammatica carenza di vaccini antinfluenzali e la corsa contro il tempo per creare 5.500 nuovi posti in terapia intensiva, con un bando che Arcuri ha definito «super veloce», i cui relativi cantieri potranno però aprire solo a fine mese. Ma come? Era forse una sorpresa che l’autunno è la stagione dei virus, e che avrebbe favorito l’arrivo di una seconda ondata pandemica? Ebbene: il governo dei pieni poteri non è riuscito a pianificare neppure questi basilari strumenti di prevenzione. Per cui lo scetticismo del centrodestra non è solo legittimo, ma doveroso. 

Ma a parte queste palesi contraddizioni sulla gestione della crisi, esiste anche un problema costituzionale di primo livello: il prolungamento dello stato d’emergenza non può infatti trasformarsi in un nuovo diluvio di Dpcm con cui il premier continui a disporre a suo piacimento delle libertà fondamentali degli italiani. L’abuso che ne è stato fatto nei primi mesi dell’emergenza sanitaria dunque non può né deve ripetersi. Il Parlamento dovrà avere l’ultima parola, e non potrà nemmeno essere sistematicamente elusa la funzione di garanzia del presidente della Repubblica, la cui moral suasion sull’epidemia di Dpcm c’è stata, ma troppo flebile e intermittente. Ecco: su questo punto il decreto legge che il governo si appresta a varare prima del 15 ottobre non dovrà contenere margini di ambiguità, nel solco dell’avviso lanciato dall’allora presidente della Consulta, Cartabia, la quale tenne a ricordare che la Costituzione «è la bussola necessaria per navigare nell’alto mare dell’emergenza e del dopo-emergenza, e non contempla diritti speciali per tempi eccezionali». 

Un monito caduto nel vuoto, ma riproposto ora con grande forza dalla presidente del Senato Casellati, che ha messo in guardia dal ricorso esagerato ai Dpcm, emanati senza preventiva consultazione delle Camere, subissate anche dall’abuso di decreti legge omnibus che impediscono alternativamente a un ramo del Parlamento di intervenire, istituendo così una sorta di monocameralismo surrettizio. Un vulnus non condiviso, però, dal presidente della Camera, secondo il quale «in questo periodo difficile, in ogni caso anche con tutte le complicazioni, il Parlamento è riuscito a svolgere un ruolo importante». Una posizione, quella di Fico, tartufesca e di totale sottomissione ai voleri dell’esecutivo, che trova per la prima volta su sponde opposte la seconda e la terza carica dello Stato. In realtà, il rischio che la gestione contiana dello stato d’emergenza possa provocare un danno alla democrazia è assolutamente reale. I Dpcm di Conte costituiscono infatti un precedente molto pericoloso: le garanzie costituzionali non possono essere sistematicamente compresse, e la limitazione deve essere sempre proporzionata alla tutela di un altro bene, anche se questo è la salute pubblica. 
 

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